Intorno agli anni Sessanta del XX secolo si
è generalizzata, anche per l'influsso dell'enorme eco suscitata
dall'inattesa decisione di Giovanni XXIII di convocare un nuovo
Concilio, un'attenzione crescente per la dimensione conciliare della
Chiesa, denominata "conciliarità" o "sinodalità".
È un orientamento che sottolinea l'importanza della dimensione
comunionale della Chiesa a tutti i livelli e pertanto la necessità
che il sensus fidelium e la communio sanctorum possano trovare espressione
in momenti conciliari.
La celebrazione del Vaticano II ha trasceso i limiti di un'assemblea
episcopale, coinvolgendo l'intera cattolicità in un clima
di rinnovamento e ha dato ulteriore impulso nella direzione della
conciliarità. È stata la riscoperta di una dimensione
dell'essere Chiesa del tutto tradizionale e, tuttavia, capace -
ancora una volta - di suscitare coinvolgimento e di stimolare un
confronto vivo con gli uomini e con l'Evangelo.
Infine, l'inizio del nuovo millennio offre un'occasione di riflessione
sui grandi cicli dell'esperienza cristiana e costituisce uno stimolo
a interrogarsi sul futuro delle Chiese. A quasi mezzo secolo dalla
conclusione del Vaticano II, occorre però riconoscere che
la conciliarità ha ottenuto maggiori consensi a livello dottrinale
che istituzionale. Infatti quasi tutte le forme di organizzazione
delle Chiese cristiane provano difficoltà e resistenze a
darsi istanze stabili di comunione e di partecipazione alle quali
sia riconosciuta anche una effettiva autorità decisionale.
La tenace resistenza dell'egemonia "clericale", concentrata
nelle rivendicazioni romane, costituisce un ostacolo verso un rinnovamento
conciliare, altrettanto quanto la simmetrica passività del
popolo credente. Tuttavia un ostacolo altrettanto grave è
costituito dalle carenze dell'elaborazione dottrinale e storica.
Le ricerche storiche sull'esperienza sinodale si sono, quasi unanimemente,
attestate sulla relazione sinodo-vescovo, sia per le Chiese locali
che per la comunione tra Chiese, tralasciando la connessione tra
assemblea liturgica e assemblea sinodale. A loro volta le elaborazioni
dottrinali si sono concentrate sul sinodo come atto del vescovo
o come espressione delle relazioni tra vescovi.
1. Ripensare la concezione della Chiesa
È tempo di ripensare la concezione della
Chiesa a partire dai dati certi ed elementari della fede oggi e
di ridisegnare un'ecclesiologia istituzionale coerente?
Oggi significa riferirsi all'attuale consapevolezza universale della
fede nel contesto della ridiscussione - a tutti i livelli - degli
effetti oppressivi delle strutture pesanti, sia politiche, che sociali
ed economiche, nel clima della riscoperta del "particolare".
Il popolo di Dio non vive separato in un'asettica terra promessa;
esso cammina nella storia degli uomini. Perciò la sua fede
si esprime in culture sempre più de-sacralizzate e si misura
sulla propria pregnanza come segno dell'amore generante che unisce
la Trinità. La molteplicità delle culture sfida oggi
la concezione stessa della fede che la teologia cristiana ha proposto
nei secoli più recenti.
Dati certi del ripensamento sulla Chiesa non possono che essere
gli elementi essenziali e caratterizzanti della rivelazione, assunti
nella loro cogenza universale transculturale, ma ricompresi nella
luce dell'oggi del sensus fidei. Il metodo di questa ricerca non
può essere che quello induttivo della lettura dei "segni
dei tempi" da parte delle comunità. I fermenti, le esperienze,
le elaborazioni in atto nelle società contemporanee non sono
autentici e pregnanti "segni del tempo"?
L'attenzione ai segni dei tempi, seguendo l'esempio dei Padri più
volte rinnovato nel corso dei secoli, spinge a riscoprire il mistero
trinitario come indice della molteplicità e della sua fecondità.
Siamo sollecitati ad attualizzare la dinamica delle processioni
trinitarie come analogo superiore di una relazione libera e rispettosa
tra diversi. Una relazione nella quale unità e diversità
non sono subordinate né, tanto meno, alternative e conflittuali.
Insistere a ritenere adeguato per la comprensione della Chiesa lo
schema centro/periferia pone ormai al di fuori della realtà
e costituisce un ostacolo alla realizzazione della comunione.
Troppo frequentemente l'esasperazione di un'ecclesiologia insensibile
sia alla centralità della comunità eucaristica che
all'identità culturale delle diverse aree, esalta il modello
del "capo". Ne consegue l'azzeramento - o quasi - dello
spazio e del riferimento all'azione dello Spirito Santo nonché
la marginalizzazione del popolo fedele. Sembra necessario riconoscere
che la ricerca della certezza e della stabilità nella struttura
della Chiesa e nella sua vita concreta è difficilmente componibile
col riconoscimento dell'imprevedibile soffio dello Spirito e con
la correlativa dinamica dei carismi.
La Chiesa, nella misura in cui si vuole sintetizzata nel suo vertice,
rischia di sostituirsi all'unico Signore e allo Spirito. Il modo
stesso di intendere la fede risulta profondamente influenzato dall'eclissi
della pneumatologia, mettendo in primo piano piuttosto l'adesione
passiva del fedele alla Chiesa e alle formulazioni delle sue autorità,
che la corrispondenza al dono divino.
I decenni del post-concilio hanno mostrato che la ricezione del
Vaticano II si gioca essenzialmente sulle potenzialità del
suo vigore profondo, della sua dynamis, di coinvolgere la comunità
ecclesiale. Ci si rende, cioè, sempre più conto che
la novità più significativa del Vaticano II non è
costituita dalle sue formulazioni, ma piuttosto dal fatto stesso
di essere stato convocato e celebrato. È, cioè, in
gioco la capacità del cristianesimo post-conciliare di discernere
quella forza, separando la sostanza viva dagli accidenti morti o
comunque privi di vitalità e pertanto ingombranti e distraenti.
Non è un discernimento facile né rapido e, soprattutto,
è un discernimento esigente, che implica disponibilità
e impegno alla conversione e alla ricerca.
Un'ermeneutica rigida e univoca di un concilio è estranea
a tutta la tradizione conciliare e si è realizzata solo dopo
un concilio "di lotta" come il Tridentino, peraltro con
esiti tutt'altro che soddisfacenti. La sua applicazione al Vaticano
II, che ha voluto essere pastorale e non dogmatico, costituirebbe
una violenza intollerabile e si risolverebbe nella negazione più
radicale dell'evento conciliare. Solo il sensus fidei della Chiesa
intera può essere il soggetto adeguato dell'interpretazione
di un grande concilio. Un sensus fidei che non può che maturare
lentamente con il concorso di tutto il popolo di Dio e che non può
essere surrogato da atti della sola gerarchia.
La dinamica della ricezione conciliare richiede di porre una distinzione
fondamentale tra la pura attuazione, sia pure fedele, e un'interpretazione
evolutiva degli atti stessi del concilio per il fatto dell'accrescimento
storico che si realizza nel corso del loro adempimento. Non ci si
deve nascondere la distanza qualitativa tra l'eventualità
che le decisioni vengano semplicemente eseguite, anche fedelmente,
e la possibilità invece che, via via, senza tradire la loro
lettera, ma anzi per una migliore interpretazione del loro spirito,
si verifichi un accrescimento della loro stessa portata letterale
per effetto di omogenee interpretazioni costruttive.
La storia dei concilii testimonia che la dialettica della loro attuazione
subisce forti resistenze e forti dilazioni; atti e deliberazioni,
che avrebbero potuto essere di grande importanza dinamica e costruttiva
nella vita della Chiesa, non ricevono nessun rilievo o addirittura
si ritorna alla situazione precedente.
Lo spirito della nuova stagione della ricerca cristiana richiede
soprattutto una prudente e serena audacia, ispirata alla certezza
dell'assistenza dello Spirito a quanti cercano con umiltà
la luce.
Se le esperienze cristiane del passato condizionano innegabilmente
il futuro col peso delle loro realizzazioni e dei loro errori, lo
liberano anche. Infatti esse testimoniano della parzialità
e perciò della inadeguatezza di ogni esperienza rispetto
alla globalità del mistero della Rivelazione e alla ricchezza
poliedrica dell'Evangelo. In particolare, vista nell'arco di due
millenni, l'esperienza cristiana della sinodalità mostra
un'alternanza di sistole e diastole, cioè di dilatazioni
e di contrazioni. Questa consapevolezza consente di recuperare intatta
la fiducia nella forza generante della fede cristiana all'interno
di qualsiasi condizione umana.
Giovanni XXIII ha dato un esempio illuminante di una fedeltà
alla tradizione tanto profonda e incondizionata da alimentare l'audacia
di un rinnovamento epocale, ispirato da una rara libertà
nei confronti delle realizzazioni del passato e impegnato a promuovere
un "balzo innanzi" con l'"aggiornamento" della
Chiesa e una nuova, ulteriore penetrazione della sostanza dell'annuncio
evangelico.
2. Una Chiesa "democratica"?
Alcuni temono che con un eventuale ricorso a una
prassi sinodale si possa insinuare nella Chiesa un'indebita dimensione
democratica. D'altronde è innegabile che le relazioni tra
cristianesimo e democrazia sono effettive e significative, a condizione
di riconoscere che sono di tipo analogico e imperfetto. Rifiutare
un ingenuo appiattimento meccanico delle strutture ecclesiali sul
metodo democratico garantisce che la Chiesa non corra il rischio
di rinnovare, anche nella nostra età, l'esperienza di "cristianità".
Un'esperienza che ha condizionato e gravato il cristianesimo per
larga parte del periodo medievale e della prima età moderna.
Se infatti con "cristianità" si indicava un rapporto
di tendenziale identificazione e di reciproco appoggio tra società
e Chiesa, oggi un parallelismo tra sistema democratico e regime
ecclesiale minaccerebbe di produrre effetti equivalenti. Ciò
imprigionerebbe la Chiesa in un sistema storico determinato, e pertanto
transitorio, e le impedirebbe di svolgere una funzione di critica
e di stimolo nei confronti dei sistemi sociali.
L'apporto più autentico che le Chiese possono dare alle società
contemporanee e al loro ordinamento democratico resta invece quello
di una prassi effettiva e sempre più profonda di comunione
al proprio interno e nelle loro reciproche relazioni.
La tradizione cristiana più autorevole identifica, caratterizza
e descrive la Chiesa con le note dell'unità, santità,
cattolicità e apostolicità.
La Chiesa cioè non è una realtà informe e plasmabile
illimitatamente; la sua fisionomia essenziale è data. Le
note la sintetizzano adeguatamente, soprattutto nella loro circolarità
e complementarità, piuttosto che nella loro enunciazione
disarticolata. L'analogia con la democrazia non può ignorarle,
né - tanto meno - vulnerarle. La consonanza dinamica tra
lex orandi e lex credendi potrebbe creativamente esprimere in modo
coerente una lex communionis, cioè regole e istituzioni -
e, soprattutto, uno stile e una mentalità - idonee a servire
i valori fondamentali della vita cristiana.
Una riflessione analoga riguarda il significato del principio di
sussidiarietà, secondo il quale le istanze più complesse
non devono espropriare le responsabilità delle realtà
sociali elementari, se non in caso di necessità e in via
di supplenza. Pertanto i problemi comuni di ciascuna Chiesa devono
trovare risposte corali, così come i problemi riguardanti
più Chiese non possono essere esaminati e decisi che da organi
comuni. Tuttavia è cruciale che ciò avvenga in forza
della "comunione" piuttosto che secondo il principio di
"sussidiarietà".
Se infatti in sede socio-politica questo principio ha una cogenza
funzionale, dato che negli ordinamenti democratici l'entità
di riferimento è lo Stato, nella Chiesa invece la realtà
di riferimento è anzitutto la comunità eucaristica,
cioè la Chiesa locale, e non la Chiesa universale. Di più,
la comunità eucaristica è una realtà essenziale
per l'ecclesiologia cristiana e pertanto una applicazione abusiva
della sussidiarietà da parte di istanze più ampie
non costituisce solo un vulnus funzionale, ma sconvolge la stessa
economia fondamentale della Chiesa.
La Chiesa locale non è una "parte" rispetto alla
Chiesa universale che sarebbe il "tutto", ma ogni Chiesa
è in sé completa nei suoi elementi essenziali (Lumen
gentium § 26). Ciò implica che quanto attiene alla qualità
ecclesiale (all'"essere") di ciascuna Chiesa non può
essere espropriato né avocato da altre istanze.
È altresì noto l'uso medievale del principio quod
omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet, che peraltro
risale a Giustiniano. Fu Innocenzo III a utilizzarlo solennemente
in vista del concilio (IV) Lateranense. Questo criterio, dialettico
rispetto al principio gerarchico, è stato sinora utilizzato
e discusso in relazione a decisioni riguardanti questioni dottrinali
o disciplinari. Esso però può trovare un'applicazione
interessante soprattutto in vista della determinazione di orientamenti
pastorali delle comunità. In questi casi l'eventualità
di conflitto con il principio gerarchico non avrebbe precedenti,
e il coinvolgimento dei fedeli in decisioni concernenti il futuro
delle comunità avrebbe uno spazio effettivo.
3. Un concilio "nuovo"
La tradizione conciliare cristiana è ricca
e variegata. Le prime esperienze sinodali si confondono - salva
l'eccezione del "concilio di Gerusalemme" (At 15, 1-29),
divenuto subito un "modello" - con l'articolata ma sfuggente
esperienza delle comunità primitive a causa della carenza
di testimonianze attendibili. Ma a partire almeno dal II secolo
possediamo informazioni e documentazioni sulla moltepliciìà
di modalità con le quali la koinonia che unisce i credenti
trova espressione in momenti assembleari. Non è esistita
area né tradizione cristiana che non si sia data forme sinodali,
sia pure secondo modulazioni differenziate.
La ricerca però ha proiettato anche sulle primitive esperienze
sinodali il "modello" niceno di un'assemblea episcopale,
ma è opportuno chiedersi se le Chiese primitive non hanno
sperimentato nel loro seno anche assemblee deliberanti di livello
più modesto. Il condizionamento "universalistico",
che ha egemonizzato l'ecclesiologia latina, ha limitato l'interesse
alla prassi sinodale che ha avuto impatto generale sulle Chiese.
Un ulteriore condizionamento è derivato dalla connessione
tra ufficio episcopale e sinodalità, che è stata affermata
in termini esclusivi.
E opportuno ricordare come l'apice dell'importanza dottrinale della
dimensione sinodale è testimoniato dall'analogia stabilita,
sin dal 591, da Gregorio Magno in una lettera sinodica, tra i quattro
Evangeli e i primi quattro grandi concilii. Dunque il grande papa
- e dopo di lui la tradizione - coglieva nei primi quattro concilii
ecumenici una filigrana equivalente al messaggio evangelico. Sarebbe
errato vedere in questa analogia solo un'autorevole valorizzazione
dei concilii dal Niceno al Calcedonese.
In verità quanto meno il sensus locutionis della formulazione
di papa Gregorio trascende i singoli contenuti delle conclusioni
conciliari e mette in evidenza il valore del fatto conciliare come
attinente al nucleo stesso della fede. E infatti significativo che
il Decretum Gratiani collocasse tale analogia sotto il titolo Ad
quos recurrendum sit cum sacrae scripturae auctoritas non occurrit?
La celebrazione di sinodi e concilii è costante nella vita
delle Chiese, ma con accentuate discontinuità. Basterebbe
ripercorrere la reiterazione delle norme sulla necessità
di queste celebrazioni, reiterazione che è sintomo inequivoco
di evasione. Lo stesso solenne decreto Frequens del concilio di
Costanza è conosciuto solo per la sua inadempienza.
È noto che sinodi e concilii hanno un'importanza differenziata,
che trova espressione nel diverso valore della loro celebrazione
e delle decisioni, a loro volta distinte abitualmente tra dogmatiche
e disciplinari. Ma è anche più importante prestare
attenzione alla tipologia dei concilii in quanto essi riflettono
modi diversi di rapportarsi delle Chiese all'impegno di testimonianza
della fede. Da questo punto di vista si sono avuti sinodi e concilii
che hanno fatto stato della fede ortodossa nei confronti di correnti
eterodosse. In altre assemblee, invece, le Chiese si sono impegnate
soprattutto a regolare la disciplina ecclesiastica, respingendo
rilassatezze nei comportamenti. Un'altra tipologia comprende le
assemblee finalizzate principalmente a mettere ordine nell'organigramma
delle istituzioni ecclesiastiche.
Quando Giovanni XXIII nel 1959 denomina il futuro concilio Vaticano
II egli afferma che esso sarebbe stato un concilio "nuovo",
sottraendolo così all'ipoteca di un completamento del disegno
ecclesiologico lasciato incompiuto nel 1870, con la costituzione
"Pastor aeternus" sulle prerogative papali, dal Vaticano
I. Un concilio nuovo aveva un'agenda libera e aperta, sarebbe stata
una pagina nuova nella storia plurisecolare dei concilii. Ma il
papa aggiunge che il Vaticano II sarà una "nuova Pentecoste".
Gli scopi e la natura del concilio sono progressivamente sbozzati,
messi a fuoco e approfonditi nei loro spessori e nelle loro implicazioni
nel corso della riflessione del papa, anche a contatto con gli echi
e le critiche suscitati nella Chiesa e tra i cristiani dall'annuncio
della convocazione, con l'evolversi della situazione mondiale e,
infine, con l'avvio della preparazione stessa del concilio.
Papa Giovanni voleva un concilio di transizione epocale, un concilio
cioè che facesse transitare il Cristianesimo dall'epoca post-tridentina
e, in una certa misura, dalla plurisecolare stagione costantiniana
a una fase nuova di testimonianza e di annuncio. Ciò sarebbe
stato possibile con un recupero degli elementi forti e permanenti
della tradizione, giudicati idonei a alimentare e garantire la fedeltà
evangelica di una transizione tanto ardua. La grande tradizione
sarebbe stata fecondata dall'impegno della Chiesa a confrontarsi
con la vita dell'umanità in un atteggiamento di amicizia.
In questa prospettiva il concilio assumeva un'importanza tutta speciale,
ancora prima come "evento" - capace di coinvolgere in
modo attivo l'episcopato, ma anche i comuni fedeli - che come sede
di elaborazione e di produzione di norme.
Secondo il papa era opportuno che le elaborazioni conciliari seguissero
un metodo induttivo, piuttosto che il metodo deduttivo, caro alla
Scolastica, ma logorato dai mutamenti epocali. Il concilio avrebbe
dovuto prendere le mosse da quei "problemi di maggior importanza
che deve attualmente affrontare la Chiesa", come aveva suggerito
lo stesso papa ai vescovi nel 1959, chiedendo pareri sugli argomenti
che il concilio avrebbe dovuto trattare. La lettura dei "segni
dei tempi" doveva entrare in sinergia reciproca con la testimonianza
dell'annuncio evangelico.
Questo è il concilio oggetto dello "sprazzo di superna
luce" di cui papa Giovanni parlò a più riprese
e che, con l'approssimarsi della Pentecoste, prese a indicare come
"pentecoste nuova". L'immagine di una nuova Pentecoste
viene poi abitualmente associata al concilio ecumenico, sino a trovare
sanzione nella preghiera papale per il concilio, nella quale si
chiede allo Spirito di rinnovare "nella nostra epoca i prodigi
come di una novella Pentecoste".
Roncalli era ben consapevole della portata teologica e storica della
Pentecoste e il fatto di invocarne una ripetizione era un modo preciso
e inequivocabile per sottolineare, con un linguaggio tipicamente
cristiano, l'eccezionalità della congiuntura storica attuale,
le prospettive straordinarie che essa apriva e la necessità
che la Chiesa vi facesse fronte con un rinnovamento di grande profondità.
Così avrebbe potuto presentarsi al mondo e indicare agli
uomini il messaggio evangelico con la stessa forza ed immediatezza
realizzata nella Pentecoste originaria.
Il richiamo alla Pentecoste, inoltre, poneva in primo piano l'azione
dello Spirito e non quella del papa o dell'episcopato, come già
era stato per gli apostoli e i discepoli, che si erano trovati ad
essere oggetto dell'azione prepotente e travolgente dello Spirito.
Su questa base il proposito e l'attesa di Giovanni XXIII rispetto
al concilio prendono la loro dimensione più vera in ordine
alla vita interna della Chiesa, alla sua unità e al suo posto
tra gli uomini.
L'orizzonte di papa Giovanni appare, infine, ulteriormente dilatato
sino ad abbracciare esplicitamente l'umanità nel suo insieme
sotto la pressione non solo dell'impulso missionario, ma anche dell'impegno
sempre più incalzante per la pace.
Quando l'11 ottobre 1962 Giovanni XXIII pronuncia in S. Pietro l'allocuzione
Gaudet mater Ecclesia chiede all'episcopato convocato a concilio
di impegnarsi in un approfondimento dottrinale e spirituale nuovo
del patrimonio cristiano, che assicuri una più perfetta fedeltà
alla dottrina autentica. Una ricerca dunque nel solco della tradizione,
eppure tesa a conseguire livelli di fedeltà più avanzati
di quelli cui si fermava il dibattito scolastico.
Il papa si spingeva anche a precise indicazioni di metodo. Secondo
lui infatti il balzo innanzi sarebbe stato possibile mediante il
ricorso alle "forme della indagine e della formulazione letteraria",
elaborate dal pensiero moderno. Questo orientamento metteva in crisi
quasi tutta la teologia cattolica moderna, che Chenu ha qualificato
come "barocca", la quale non solo aveva il vezzo di esprimersi
in latino, ma sembrava alimentarsi soprattutto all'opposizione e
al rifiuto del pensiero moderno.
Cominciava così a delinearsi quel nuovo tipo di concilio
intravisto da papa Giovanni e chiamato a una "penetrazione
dottrinale" che si misurasse, invece che su un'astratta sistematicità
della verità, su un servizio allo "spirito cristiano,
cattolico e apostolico", producendo un'effettiva migliore comprensione
del Vangelo. Con ciò Roncalli esprimeva un'ansia antica,
che aveva avuto modo di manifestare embrionalmente, sin dal 1907,
quando - celebrando a Bergamo il centenario del Baronio - aveva
sostenuto l'opportunità e la legittimità del ricorso
al metodo induttivo, trascendendo i fantasmi dell'anti-modernismo.
Pensando, convocando e avviando il Vaticano II papa Giovanni ha
indicato una pista per il cammino del popolo di Dio nella comunione
e nella responsabilità: "intesi a servire l'uomo in
quanto tale e non solo i cattolici", come ha poi detto sul
letto di morte.
Vi è stata una ricerca della comunione da entrambe le parti
- papa ed episcopato -, agevolata da uno spontaneo consenso dell'episcopato
verso il papa del concilio. Si è trattato perciò di
un rapporto sempre in fieri, affidato alla dinamica della comunione
(ma non per questo esente da incognite). Un rapporto di reciproca
ricerca, nel corso del quale il papa ha salvaguardato la libertà
dei vescovi senza venire meno alla propria originaria impostazione.
È stata la scomparsa di papa Roncalli a interrompere o, almeno,
a dilazionare l'evoluzione ulteriore di tale ricerca.
Lo stesso Giovanni XXIII ha attribuito inoltre al concilio la caratteristica
della "pastoralità". Cosa significava presentazione
pastorale del Vangelo e aggiornamento delle formulazioni della fede
e della Chiesa? La svolta implicata da queste prospettive era complessa
per le modificazioni che rendeva necessarie, al di là di
ogni "modello" precostituito. Questa caratterizzazione
è stata colta molto presto come un sintomo inequivoco di
un concilio "nuovo", rispetto ai precedenti, nella misura
in cui non è stato determinato dalla risposta a deviazioni
eretiche - come i concilii antichi - , né da esigenze di
organizzazione della Cristianità - come i Lateranensi -,
né da emergenze - come Costanza, Basilea e Trento - né,
infine, ha realizzato un progetto ben determinato - come il Vaticano
del 1870.
Non avendo soltanto rinunziato a formulare condanne (anatemi), ma
avendo evitato di enunciare la dottrina in termini assertivi (dogmi),
ciò importa una diversità notevolissima nell'andamento
e nella struttura degli atti e dei documenti del Vaticano II e implica
anche la necessità di rivedere e di modificare la tavola
tradizionale delle qualificazioni teologiche dei documenti stessi.
Già nel dicembre 1962 era chiaro al teologo Chenu che "il
carattere pastorale è diventato il primo criterio della verità
da formulare e da proporre e non solo il motivo delle decisioni
pratiche da adottare. Dunque "pastorale" qualifica una
teologia, un modo di pensare la teologia e di insegnare la fede,
meglio: una visione dell'economia di salvezza".
"Aggiornamento", piuttosto che riforma della Chiesa -
cioè ripristino di passata purezza -, voleva indicare disponibilità
e attitudine alla ricerca verso il futuro, impegno globale per una
nuova inculturazione della rivelazione. L'abituale dicotomia tra
storia profana e storia sacra risulta superata, senza tuttavia pervenire
a una sacralizzazione della storia, altrettanto inaccettabile. La
storia viene riconosciuta come "luogo teologico", cioè
realtà nella quale la fede può e deve alimentare la
propria incessante ricerca del Regno, non per averne un possesso
geloso, ma per farne la sede privilegiata dell'amicizia con gli
uomini.
Le prospettive nuove indicate da Giovanni XXIII l'11 ottobre 1962
hanno trovato consensi tra la grande maggioranza dei padri conciliari,
la sua "scommessa" sulla fecondità di un concilio
posto nelle mani dei vescovi ha avuto un esito positivo. Ne è
nato un concilio "nuovo". La teologia preconciliare avrebbe
forse parlato di un "fatto dogmatico".
Infatti il Vaticano II è stato un concilio impegnato a rispondere
in positivo, cioè riproponendo i contenuti evangelici essenziali,
al futuro dell'umanità del terzo millennio, secondo i criteri
della pastoralità e dell'aggiornamento. Ulteriori sintomi
della novità sono stati l'attiva e cordiale partecipazione
degli "Osservatori" delle Chiese non cattoliche, l'assenza
dell'abituale tensione tra papa e concilio e il coinvolgimento generale
della Chiesa come universitas fidelium. I fedeli, e spesso la stessa
opinione pubblica, si sono sentiti coinvolti nel cammino di ricerca
del concilio: res nostra agitur. Era, forse anche inconsapevolmente,
la risposta al caldo e reiterato invito di Giovanni XXIII ad accompagnare
la celebrazione del concilio.
Il rapporto tra papa Giovanni e il Vaticano II ha, dunque, delineato
un concilio di tipo nuovo rispetto a quelli già collaudati
dalla storia. Un concilio come grande liturgia di lode e di professione
di fronte alle nazioni nel cuore della storia perché tutti
gli uomini "possano raggiungere quelle eccelse e desideratissime
mete che ancora non sono riusciti a conseguire". Un momento
sinodale capace di coinvolgere tutti i battezzati intorno ai successori
degli Apostoli nella lettura e interpretazione dei segni del tempo,
in modo che la comunità sia responsabilmente in grado di
offrire un servizio e dare una testimonianza.
4. Resistenze alla conciliarità
L'acquisizione delle nuove prospettive aperte
dal Vaticano II è lentamente in corso, non senza opposizioni
e contraddizioni. È opportuno farne almeno un inventario
per comprendere meglio, superando l'irritazione viscerale, e - nel
medesimo tempo - per approfondire la portata della svolta che si
è verificata nella comprensione del fattore "sinodale"
nella vita delle comunità cristiane e della Chiesa.
L'ostacolo forse principale è costituito dalla ricezione
differenziata delle novità prima accennate. Infatti da parte
dell'opinione pubblica esterna alle Chiese è ancora in atto
un atteggiamento caratterizzato da un lato dalla critica - spesso
severa - dell'autoritarismo e dell'accentramento rivendicati dal
pontificato romano. Critica alla quale - da un altro lato - si unisce
la condiscendenza nei confronti dell'esercizio accentrato dell'autorità
da parte della struttura "clericale". La denuncia si accompagna
cioè alla radicata convinzione della funzione conservatrice
dell'istituzione ecclesiastica.
All'opposto, il popolo credente vive dolorosamente un'insofferenza
sempre maggiore per la condizione di passività nella quale
è relegato in seno alla Chiesa. È diffusa l'impressione
che l'impulso conciliare sia stato diluito e frenato in tutte le
direzioni. La riforma liturgica è tarpata nella sua portata
di partecipazione. La scelta dei pastori è sottratta a qualsiasi
coinvolgimento dei fedeli. La responsabilità dei Vescovi
riuniti nelle Conferenze episcopali è circoscritta in tutti
i modi, umiliando tradizioni venerande e carismi che potrebbero
vivificare le comunità. Persino il Synodus episcoporum si
è ripiegato su se stesso e si è isterilito, tradendo
i semi di rinnovamento che implicitamente racchiudeva.
Persino l'impulso, suggestivo e fecondo, a una inculturazione della
fede cristiana nell'humus dei popoli è stato mortificato
nella formula della "nuova evangelizzazione". Malgrado
il generoso impegno di papa Wojtyla nei numerosi viaggi apostolici,
l'eurocentrismo, come egemonia di un solo stile di vita cristiana,
minaccia di impadronirsi nuovamente del cattolicesimo. I "movimenti",
tanto graditi e premiati a Roma, sembrano lo strumento di questa
rinnovata centralizzazione.
Fatti come questi inducono a una riflessione più generale.
Forse non si tratta più solo (?!), come poteva apparire negli
anni Ottanta del secolo scorso, di una inadeguata assimilazione
dell'ecclesiologia formulata nella Lumen gentium, ma sembra che
la stessa acquisizione cruciale del Vaticano II, il solenne riconoscimento
della libertà religiosa sotto l'unica sovranità della
parola di Dio, sia messo in discussione. Infatti è proprio
la libertà del cristiano e del popolo di Dio che è
di fatto oppressa, conculcata e negata in tutti i casi ora ricordati
e in numerosi altri. L'autorevole promozione e difesa dei diritti
umani svolta da Giovanni Paolo II appare rivolta esclusivamente
ad extra. Essa è sorprendentemente contraddetta in seno alla
Chiesa.
Alle soglie del nuovo millennio questa appare la "frontiera"
sulla quale si gioca la ricezione o il rifiuto del Vaticano II e
delle prospettive di rinnovamento che si sono aperte. Lo stesso
modo di concepire e di vivere la fede e la Chiesa sono in discussione.
Accettare sino in fondo il Vaticano II significa sempre più
guardare avanti senza nostalgie, vivere la fede come comunione col
Padre e con tutti fratelli, dare alla Chiesa una fisionomia sinodale
nella quale tutti possano decidere quanto riguarda tutti.
5. La conciliarità, futuro delle Chiese
Il rinnovamento innescato dallo Spirito col Vaticano
II continua, tuttavia, a fermentare, sotto forma di sollecitazione
ai credenti e alle Chiese a ricercare forme di testimonianza adeguate
alle proprie condizioni storiche, piuttosto che come rigida determinazione
di modifiche istituzionali imposte a tutta la Chiesa.
La Chiesa cattolica romana è oggi collocata in una prospettiva
dinamica, come comunione di fede tra tutti i battezzati e come sinfonia
di comunità locali inserite nelle società in cui vivono
e impegnate nella ricerca della fedeltà al Vangelo. È
una Chiesa che, restando fedele alla tradizione di essere dotata
di un consistente apparato istituzionale, tuttavia riafferma la
subordinazione della dimensione istituzionale all'evento.
Le altre Chiese cristiane e soprattutto il Consiglio ecumenico delle
Chiese (WCC) di Ginevra hanno riconosciuto nei decenni più
recenti una centralità alla "conciliarità",
come esigenza di coralità nei vari aspetti della loro vita.
A loro volta le Chiese orientali in comunione con Costantinopoli
hanno avviato un complesso e faticoso itinerario di preparazione
di un concilio panortodosso. Infine, anche il patriarcato di Mosca
coltiva un progetto di concilio pan-russo.
La multiforme proliferazione di esperienze ecclesiali seguite al
Vaticano II sembra dunque segnare una svolta epocale verso una più
diretta ispirazione evangelica dell'essere della Chiesa, abbandonando
i supporti di teoria politica e di filosofia sociale che hanno condizionato
la concezione della Chiesa negli ultimi secoli, sino al punto da
dare vita a una disciplina autonoma che la formalizzasse. Gli schemi
classici, come quello verticale o piramidale e quello orizzontale,
usati per connotare la struttura ecclesiale, appaiono destinati
a rapida obsolescenza. Le diaconie delle diverse Chiese appaiono
sempre più mobili, non esclusa quella della Chiesa di Roma
e del suo vescovo.
"Rendere ragione della speranza che è in noi" (1
Pt 3,15) non è un'istanza spirituale impalpabile, ma un impegno
puntuale, da cui nessuno è esentato e che è soprattutto
stringente per tutti coloro che sono incaricati di una responsabilità
di servizio.
Il tramonto delle grandi ideologie contemporanee lascia un grande
vuoto, la secolarizzazione incalza: ciò offre una eccezionale
occasione storica. Il bisogno di partecipazione, di coinvolgimento,
di corresponsabilità è vivissimo, anche se talora
latente. Le Chiese cristiane si trovano di fronte al kairòs
di dare una risposta evangelica a queste istanze. È una chiamata
a superare inerzie e timori paralizzanti per accettare di porsi
nella prospettiva di "una nuova Pentecoste". Ogni volta
che questa vocazione è delusa si innescano passività
e abbandono.
Per riprendere un'antica distinzione, lo status ecclesiae, cioè
il Cristo e la fede in lui, deve costituire sempre l'elemento comune
e permanente della Chiesa, mentre gli statuta ecclesiae, cioè
tutto ciò che attiene alla vita delle comunità, devono
essere di nuovo il luogo del pluriformismo. Ne deriva il superamento
di qualsiasi istanza univoca di tipo ecclesiologico e si apre la
possibilità di una reintegrazione sempre più profonda
della Chiesa, e della riflessione sulla sua vita, nell'universo
della fede.
È dunque urgente un approfondimento dottrinale della conciliarità,
che prenda le mosse dall'impulso liberante della avvenuta celebrazione
di un "concilio pastorale", dopo i concilii dogmatici,
disciplinari, di riforma istituzionale. Ciò significa che
la relazione tra la Chiesa - comunione e comunità dei fedeli
- e il concilio può avere anche un profilo programmatico,
finalizzato al futuro.
Le conseguenze di questa svolta sono molteplici e di grande rilievo
perché sottraggono la dimensione sinodale all'esclusiva funzione
giudiziaria o normativa, comunque attinente al servizio ecclesiastico
di ordinamento. Come in parte è stato nei primi secoli (e
in seno a alcune tradizioni cristiane ancora oggi), sinodalità
ritrova un significato ricco e complesso. Uno stile, cioè,
con il quale ogni comunità cristiana, le Chiese e, infine,
la grande Chiesa leggono - per l'oggi e per il futuro - i "segni
del tempo" mettendoli a confronto con l'Evangelo eterno.
Così concepita, la sinodalità coinvolge direttamente
ogni credente e ogni comunità, per piccola e "periferica"
che sia. È un diritto cristiano e, soprattutto, un dovere
che può dare alla testimonianza della fede un impatto e una
autenticità nuove. Il monopolio clericale e episcopale della
conciliarità può essere superato come una stagione
storica gloriosa, ma conclusa. Nel rispetto dei carismi e dei diversi
servizi, la valorizzazione della fondamentale uguaglianza battesimale
può generare una nuova era di presenza cristiana, tanto più
dopo la riscoperta della portata sacramentale del sacerdozio comune
dei fedeli.
Con il Vaticano II e i pontificati della ultima metà del
XX secolo si è giunti a una consapevolezza più piena
e plenaria che nel passato della uguaglianza dei credenti. Proprio
a questo proposito è stato dato un apporto rilevante alla
coscienza sociale contemporanea. Il nuovo millennio si è
aperto con il superamento delle disuguaglianze storiche tra uomo
e donna, tra razze e culture, tra nord e sud del pianeta. Ciò
apre possibilità di sinodalità in una misura nuova.
È la vocazione a "camminare insieme", come dice
l'etimologia di sin - odo. L'ecclesiologia classica riteneva che
i concilii riguardassero il bene esse della Chiesa; d'ora in poi
la conciliarità attiene all'essere della Chiesa. Le Chiese
cristiane hanno la forza per intraprendere questa nuova stagione?
Dal punto di vista (per così dire) dello Spirito Santo non
vi può essere dubbio, altrimenti la celebrazione del Vaticano
II, che ha coinvolto l'intero cattolicesimo e - in larga misura
- le altre tradizioni cristiane, sarebbe stato un drammatico inganno.
Dal punto di vista delle comunità - l'ecclesia peregrinans,
si sarebbe detto una volta - si tratta di accettare e interiorizzare
una grande svolta storica, come già è avvenuto per
il passato, alla fine delle persecuzioni, dopo le lacerazioni dello
Scisma orientale e la divisione successiva alla Riforma protestante.
Oggi le Chiese cristiane - ogni Chiesa - sono sfidate a giocare
la fedeltà al Vangelo e perciò la credibilità
della loro testimonianza agli uomini vivendo in modo effettivo la
koinonìa e dando alla comunione anche una coerente dimensione
istituzionale nella conciliarità.
Forse i modelli del passato (sinodi, concistori, concilii, conferenze
ecc.) possono servire ancora, a condizione che siano animati da
uno spirito fresco di ricerca e siano finalizzati a comprendere
le nuove istanze che lo Spirito pone. È anche possibile che
siano necessarie nuove forme, capaci di un coinvolgimento più
largo anche dei cristiani "comuni", donne e uomini. Quando,
dopo il concilio di Trento, alcuni vescovi, me Carlo Borromeo, Bartolomeo
de Martiribus e altri, hanno rianimato la tradizione sinodale l'hanno
tuttavia riempita di contenuti nuovi, adeguati al nuovo tempo della
Chiesa.
Le timide esperienze di partecipazione effettiva dei fedeli comuni
alle istanze sinodali, sin qui realizzate, dovrebbero essere ulteriormente
sviluppate con discernimento. Più che mai sono auspicabili
esperienze esemplari e trainanti, che trovino il conforto e il sostegno
dei numerosi successori degli Apostoli che condividono queste prospettive,
ma che troppo frequentemente scelgono di rifugiarsi in comportamenti
"nicodemiti "!
Più che mai, la responsabilità del rinnovamento incombe
su ogni cristiano, ma certo tocca a chi ha ricevuto di più,
dare di più, anche a prezzo di qualche rischio. Ma ogni rischio
non è insignificante a paragone di quello corso dai discepoli
sulla via di Emmaus, quando non hanno riconosciuto il Cristo?
Nella prospettiva appena schizzata anche il vescovo di Roma potrebbe
ritrovare un ruolo proprio, rispettoso della veneranda tradizione
petropaolina. Un servizio cioè di raccordo tra multiformi
esperienze, di conoscenza delle diversità nella fraternità,
di perno e fattore della sinfonia di unità.
Si può riprendere la profezia di Romano Guardini, auspicando
che il nostro sia il secolo della conciliarità delle Chiese
e tra le Chiese? |