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CONCILIARITÀ, FUTURO DELLE CHIESE - di Giuseppe Alberigo

 

Intorno agli anni Sessanta del XX secolo si è generalizzata, anche per l'influsso dell'enorme eco suscitata dall'inattesa decisione di Giovanni XXIII di convocare un nuovo Concilio, un'attenzione crescente per la dimensione conciliare della Chiesa, denominata "conciliarità" o "sinodalità". È un orientamento che sottolinea l'importanza della dimensione comunionale della Chiesa a tutti i livelli e pertanto la necessità che il sensus fidelium e la communio sanctorum possano trovare espressione in momenti conciliari.
La celebrazione del Vaticano II ha trasceso i limiti di un'assemblea episcopale, coinvolgendo l'intera cattolicità in un clima di rinnovamento e ha dato ulteriore impulso nella direzione della conciliarità. È stata la riscoperta di una dimensione dell'essere Chiesa del tutto tradizionale e, tuttavia, capace - ancora una volta - di suscitare coinvolgimento e di stimolare un confronto vivo con gli uomini e con l'Evangelo.
Infine, l'inizio del nuovo millennio offre un'occasione di riflessione sui grandi cicli dell'esperienza cristiana e costituisce uno stimolo a interrogarsi sul futuro delle Chiese. A quasi mezzo secolo dalla conclusione del Vaticano II, occorre però riconoscere che la conciliarità ha ottenuto maggiori consensi a livello dottrinale che istituzionale. Infatti quasi tutte le forme di organizzazione delle Chiese cristiane provano difficoltà e resistenze a darsi istanze stabili di comunione e di partecipazione alle quali sia riconosciuta anche una effettiva autorità decisionale.
La tenace resistenza dell'egemonia "clericale", concentrata nelle rivendicazioni romane, costituisce un ostacolo verso un rinnovamento conciliare, altrettanto quanto la simmetrica passività del popolo credente. Tuttavia un ostacolo altrettanto grave è costituito dalle carenze dell'elaborazione dottrinale e storica. Le ricerche storiche sull'esperienza sinodale si sono, quasi unanimemente, attestate sulla relazione sinodo-vescovo, sia per le Chiese locali che per la comunione tra Chiese, tralasciando la connessione tra assemblea liturgica e assemblea sinodale. A loro volta le elaborazioni dottrinali si sono concentrate sul sinodo come atto del vescovo o come espressione delle relazioni tra vescovi.

1. Ripensare la concezione della Chiesa

È tempo di ripensare la concezione della Chiesa a partire dai dati certi ed elementari della fede oggi e di ridisegnare un'ecclesiologia istituzionale coerente?
Oggi significa riferirsi all'attuale consapevolezza universale della fede nel contesto della ridiscussione - a tutti i livelli - degli effetti oppressivi delle strutture pesanti, sia politiche, che sociali ed economiche, nel clima della riscoperta del "particolare". Il popolo di Dio non vive separato in un'asettica terra promessa; esso cammina nella storia degli uomini. Perciò la sua fede si esprime in culture sempre più de-sacralizzate e si misura sulla propria pregnanza come segno dell'amore generante che unisce la Trinità. La molteplicità delle culture sfida oggi la concezione stessa della fede che la teologia cristiana ha proposto nei secoli più recenti.
Dati certi del ripensamento sulla Chiesa non possono che essere gli elementi essenziali e caratterizzanti della rivelazione, assunti nella loro cogenza universale transculturale, ma ricompresi nella luce dell'oggi del sensus fidei. Il metodo di questa ricerca non può essere che quello induttivo della lettura dei "segni dei tempi" da parte delle comunità. I fermenti, le esperienze, le elaborazioni in atto nelle società contemporanee non sono autentici e pregnanti "segni del tempo"?
L'attenzione ai segni dei tempi, seguendo l'esempio dei Padri più volte rinnovato nel corso dei secoli, spinge a riscoprire il mistero trinitario come indice della molteplicità e della sua fecondità. Siamo sollecitati ad attualizzare la dinamica delle processioni trinitarie come analogo superiore di una relazione libera e rispettosa tra diversi. Una relazione nella quale unità e diversità non sono subordinate né, tanto meno, alternative e conflittuali. Insistere a ritenere adeguato per la comprensione della Chiesa lo schema centro/periferia pone ormai al di fuori della realtà e costituisce un ostacolo alla realizzazione della comunione.
Troppo frequentemente l'esasperazione di un'ecclesiologia insensibile sia alla centralità della comunità eucaristica che all'identità culturale delle diverse aree, esalta il modello del "capo". Ne consegue l'azzeramento - o quasi - dello spazio e del riferimento all'azione dello Spirito Santo nonché la marginalizzazione del popolo fedele. Sembra necessario riconoscere che la ricerca della certezza e della stabilità nella struttura della Chiesa e nella sua vita concreta è difficilmente componibile col riconoscimento dell'imprevedibile soffio dello Spirito e con la correlativa dinamica dei carismi.
La Chiesa, nella misura in cui si vuole sintetizzata nel suo vertice, rischia di sostituirsi all'unico Signore e allo Spirito. Il modo stesso di intendere la fede risulta profondamente influenzato dall'eclissi della pneumatologia, mettendo in primo piano piuttosto l'adesione passiva del fedele alla Chiesa e alle formulazioni delle sue autorità, che la corrispondenza al dono divino.
I decenni del post-concilio hanno mostrato che la ricezione del Vaticano II si gioca essenzialmente sulle potenzialità del suo vigore profondo, della sua dynamis, di coinvolgere la comunità ecclesiale. Ci si rende, cioè, sempre più conto che la novità più significativa del Vaticano II non è costituita dalle sue formulazioni, ma piuttosto dal fatto stesso di essere stato convocato e celebrato. È, cioè, in gioco la capacità del cristianesimo post-conciliare di discernere quella forza, separando la sostanza viva dagli accidenti morti o comunque privi di vitalità e pertanto ingombranti e distraenti. Non è un discernimento facile né rapido e, soprattutto, è un discernimento esigente, che implica disponibilità e impegno alla conversione e alla ricerca.
Un'ermeneutica rigida e univoca di un concilio è estranea a tutta la tradizione conciliare e si è realizzata solo dopo un concilio "di lotta" come il Tridentino, peraltro con esiti tutt'altro che soddisfacenti. La sua applicazione al Vaticano II, che ha voluto essere pastorale e non dogmatico, costituirebbe una violenza intollerabile e si risolverebbe nella negazione più radicale dell'evento conciliare. Solo il sensus fidei della Chiesa intera può essere il soggetto adeguato dell'interpretazione di un grande concilio. Un sensus fidei che non può che maturare lentamente con il concorso di tutto il popolo di Dio e che non può essere surrogato da atti della sola gerarchia.
La dinamica della ricezione conciliare richiede di porre una distinzione fondamentale tra la pura attuazione, sia pure fedele, e un'interpretazione evolutiva degli atti stessi del concilio per il fatto dell'accrescimento storico che si realizza nel corso del loro adempimento. Non ci si deve nascondere la distanza qualitativa tra l'eventualità che le decisioni vengano semplicemente eseguite, anche fedelmente, e la possibilità invece che, via via, senza tradire la loro lettera, ma anzi per una migliore interpretazione del loro spirito, si verifichi un accrescimento della loro stessa portata letterale per effetto di omogenee interpretazioni costruttive.
La storia dei concilii testimonia che la dialettica della loro attuazione subisce forti resistenze e forti dilazioni; atti e deliberazioni, che avrebbero potuto essere di grande importanza dinamica e costruttiva nella vita della Chiesa, non ricevono nessun rilievo o addirittura si ritorna alla situazione precedente.
Lo spirito della nuova stagione della ricerca cristiana richiede soprattutto una prudente e serena audacia, ispirata alla certezza dell'assistenza dello Spirito a quanti cercano con umiltà la luce.
Se le esperienze cristiane del passato condizionano innegabilmente il futuro col peso delle loro realizzazioni e dei loro errori, lo liberano anche. Infatti esse testimoniano della parzialità e perciò della inadeguatezza di ogni esperienza rispetto alla globalità del mistero della Rivelazione e alla ricchezza poliedrica dell'Evangelo. In particolare, vista nell'arco di due millenni, l'esperienza cristiana della sinodalità mostra un'alternanza di sistole e diastole, cioè di dilatazioni e di contrazioni. Questa consapevolezza consente di recuperare intatta la fiducia nella forza generante della fede cristiana all'interno di qualsiasi condizione umana.
Giovanni XXIII ha dato un esempio illuminante di una fedeltà alla tradizione tanto profonda e incondizionata da alimentare l'audacia di un rinnovamento epocale, ispirato da una rara libertà nei confronti delle realizzazioni del passato e impegnato a promuovere un "balzo innanzi" con l'"aggiornamento" della Chiesa e una nuova, ulteriore penetrazione della sostanza dell'annuncio evangelico.

2. Una Chiesa "democratica"?

Alcuni temono che con un eventuale ricorso a una prassi sinodale si possa insinuare nella Chiesa un'indebita dimensione democratica. D'altronde è innegabile che le relazioni tra cristianesimo e democrazia sono effettive e significative, a condizione di riconoscere che sono di tipo analogico e imperfetto. Rifiutare un ingenuo appiattimento meccanico delle strutture ecclesiali sul metodo democratico garantisce che la Chiesa non corra il rischio di rinnovare, anche nella nostra età, l'esperienza di "cristianità". Un'esperienza che ha condizionato e gravato il cristianesimo per larga parte del periodo medievale e della prima età moderna.
Se infatti con "cristianità" si indicava un rapporto di tendenziale identificazione e di reciproco appoggio tra società e Chiesa, oggi un parallelismo tra sistema democratico e regime ecclesiale minaccerebbe di produrre effetti equivalenti. Ciò imprigionerebbe la Chiesa in un sistema storico determinato, e pertanto transitorio, e le impedirebbe di svolgere una funzione di critica e di stimolo nei confronti dei sistemi sociali.
L'apporto più autentico che le Chiese possono dare alle società contemporanee e al loro ordinamento democratico resta invece quello di una prassi effettiva e sempre più profonda di comunione al proprio interno e nelle loro reciproche relazioni.
La tradizione cristiana più autorevole identifica, caratterizza e descrive la Chiesa con le note dell'unità, santità, cattolicità e apostolicità.
La Chiesa cioè non è una realtà informe e plasmabile illimitatamente; la sua fisionomia essenziale è data. Le note la sintetizzano adeguatamente, soprattutto nella loro circolarità e complementarità, piuttosto che nella loro enunciazione disarticolata. L'analogia con la democrazia non può ignorarle, né - tanto meno - vulnerarle. La consonanza dinamica tra lex orandi e lex credendi potrebbe creativamente esprimere in modo coerente una lex communionis, cioè regole e istituzioni - e, soprattutto, uno stile e una mentalità - idonee a servire i valori fondamentali della vita cristiana.
Una riflessione analoga riguarda il significato del principio di sussidiarietà, secondo il quale le istanze più complesse non devono espropriare le responsabilità delle realtà sociali elementari, se non in caso di necessità e in via di supplenza. Pertanto i problemi comuni di ciascuna Chiesa devono trovare risposte corali, così come i problemi riguardanti più Chiese non possono essere esaminati e decisi che da organi comuni. Tuttavia è cruciale che ciò avvenga in forza della "comunione" piuttosto che secondo il principio di "sussidiarietà".
Se infatti in sede socio-politica questo principio ha una cogenza funzionale, dato che negli ordinamenti democratici l'entità di riferimento è lo Stato, nella Chiesa invece la realtà di riferimento è anzitutto la comunità eucaristica, cioè la Chiesa locale, e non la Chiesa universale. Di più, la comunità eucaristica è una realtà essenziale per l'ecclesiologia cristiana e pertanto una applicazione abusiva della sussidiarietà da parte di istanze più ampie non costituisce solo un vulnus funzionale, ma sconvolge la stessa economia fondamentale della Chiesa.
La Chiesa locale non è una "parte" rispetto alla Chiesa universale che sarebbe il "tutto", ma ogni Chiesa è in sé completa nei suoi elementi essenziali (Lumen gentium § 26). Ciò implica che quanto attiene alla qualità ecclesiale (all'"essere") di ciascuna Chiesa non può essere espropriato né avocato da altre istanze.
È altresì noto l'uso medievale del principio quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet, che peraltro risale a Giustiniano. Fu Innocenzo III a utilizzarlo solennemente in vista del concilio (IV) Lateranense. Questo criterio, dialettico rispetto al principio gerarchico, è stato sinora utilizzato e discusso in relazione a decisioni riguardanti questioni dottrinali o disciplinari. Esso però può trovare un'applicazione interessante soprattutto in vista della determinazione di orientamenti pastorali delle comunità. In questi casi l'eventualità di conflitto con il principio gerarchico non avrebbe precedenti, e il coinvolgimento dei fedeli in decisioni concernenti il futuro delle comunità avrebbe uno spazio effettivo.

3. Un concilio "nuovo"

La tradizione conciliare cristiana è ricca e variegata. Le prime esperienze sinodali si confondono - salva l'eccezione del "concilio di Gerusalemme" (At 15, 1-29), divenuto subito un "modello" - con l'articolata ma sfuggente esperienza delle comunità primitive a causa della carenza di testimonianze attendibili. Ma a partire almeno dal II secolo possediamo informazioni e documentazioni sulla moltepliciìà di modalità con le quali la koinonia che unisce i credenti trova espressione in momenti assembleari. Non è esistita area né tradizione cristiana che non si sia data forme sinodali, sia pure secondo modulazioni differenziate.
La ricerca però ha proiettato anche sulle primitive esperienze sinodali il "modello" niceno di un'assemblea episcopale, ma è opportuno chiedersi se le Chiese primitive non hanno sperimentato nel loro seno anche assemblee deliberanti di livello più modesto. Il condizionamento "universalistico", che ha egemonizzato l'ecclesiologia latina, ha limitato l'interesse alla prassi sinodale che ha avuto impatto generale sulle Chiese. Un ulteriore condizionamento è derivato dalla connessione tra ufficio episcopale e sinodalità, che è stata affermata in termini esclusivi.
E opportuno ricordare come l'apice dell'importanza dottrinale della dimensione sinodale è testimoniato dall'analogia stabilita, sin dal 591, da Gregorio Magno in una lettera sinodica, tra i quattro Evangeli e i primi quattro grandi concilii. Dunque il grande papa - e dopo di lui la tradizione - coglieva nei primi quattro concilii ecumenici una filigrana equivalente al messaggio evangelico. Sarebbe errato vedere in questa analogia solo un'autorevole valorizzazione dei concilii dal Niceno al Calcedonese.
In verità quanto meno il sensus locutionis della formulazione di papa Gregorio trascende i singoli contenuti delle conclusioni conciliari e mette in evidenza il valore del fatto conciliare come attinente al nucleo stesso della fede. E infatti significativo che il Decretum Gratiani collocasse tale analogia sotto il titolo Ad quos recurrendum sit cum sacrae scripturae auctoritas non occurrit?
La celebrazione di sinodi e concilii è costante nella vita delle Chiese, ma con accentuate discontinuità. Basterebbe ripercorrere la reiterazione delle norme sulla necessità di queste celebrazioni, reiterazione che è sintomo inequivoco di evasione. Lo stesso solenne decreto Frequens del concilio di Costanza è conosciuto solo per la sua inadempienza.
È noto che sinodi e concilii hanno un'importanza differenziata, che trova espressione nel diverso valore della loro celebrazione e delle decisioni, a loro volta distinte abitualmente tra dogmatiche e disciplinari. Ma è anche più importante prestare attenzione alla tipologia dei concilii in quanto essi riflettono modi diversi di rapportarsi delle Chiese all'impegno di testimonianza della fede. Da questo punto di vista si sono avuti sinodi e concilii che hanno fatto stato della fede ortodossa nei confronti di correnti eterodosse. In altre assemblee, invece, le Chiese si sono impegnate soprattutto a regolare la disciplina ecclesiastica, respingendo rilassatezze nei comportamenti. Un'altra tipologia comprende le assemblee finalizzate principalmente a mettere ordine nell'organigramma delle istituzioni ecclesiastiche.
Quando Giovanni XXIII nel 1959 denomina il futuro concilio Vaticano II egli afferma che esso sarebbe stato un concilio "nuovo", sottraendolo così all'ipoteca di un completamento del disegno ecclesiologico lasciato incompiuto nel 1870, con la costituzione "Pastor aeternus" sulle prerogative papali, dal Vaticano I. Un concilio nuovo aveva un'agenda libera e aperta, sarebbe stata una pagina nuova nella storia plurisecolare dei concilii. Ma il papa aggiunge che il Vaticano II sarà una "nuova Pentecoste".
Gli scopi e la natura del concilio sono progressivamente sbozzati, messi a fuoco e approfonditi nei loro spessori e nelle loro implicazioni nel corso della riflessione del papa, anche a contatto con gli echi e le critiche suscitati nella Chiesa e tra i cristiani dall'annuncio della convocazione, con l'evolversi della situazione mondiale e, infine, con l'avvio della preparazione stessa del concilio.
Papa Giovanni voleva un concilio di transizione epocale, un concilio cioè che facesse transitare il Cristianesimo dall'epoca post-tridentina e, in una certa misura, dalla plurisecolare stagione costantiniana a una fase nuova di testimonianza e di annuncio. Ciò sarebbe stato possibile con un recupero degli elementi forti e permanenti della tradizione, giudicati idonei a alimentare e garantire la fedeltà evangelica di una transizione tanto ardua. La grande tradizione sarebbe stata fecondata dall'impegno della Chiesa a confrontarsi con la vita dell'umanità in un atteggiamento di amicizia.
In questa prospettiva il concilio assumeva un'importanza tutta speciale, ancora prima come "evento" - capace di coinvolgere in modo attivo l'episcopato, ma anche i comuni fedeli - che come sede di elaborazione e di produzione di norme.
Secondo il papa era opportuno che le elaborazioni conciliari seguissero un metodo induttivo, piuttosto che il metodo deduttivo, caro alla Scolastica, ma logorato dai mutamenti epocali. Il concilio avrebbe dovuto prendere le mosse da quei "problemi di maggior importanza che deve attualmente affrontare la Chiesa", come aveva suggerito lo stesso papa ai vescovi nel 1959, chiedendo pareri sugli argomenti che il concilio avrebbe dovuto trattare. La lettura dei "segni dei tempi" doveva entrare in sinergia reciproca con la testimonianza dell'annuncio evangelico.
Questo è il concilio oggetto dello "sprazzo di superna luce" di cui papa Giovanni parlò a più riprese e che, con l'approssimarsi della Pentecoste, prese a indicare come "pentecoste nuova". L'immagine di una nuova Pentecoste viene poi abitualmente associata al concilio ecumenico, sino a trovare sanzione nella preghiera papale per il concilio, nella quale si chiede allo Spirito di rinnovare "nella nostra epoca i prodigi come di una novella Pentecoste".
Roncalli era ben consapevole della portata teologica e storica della Pentecoste e il fatto di invocarne una ripetizione era un modo preciso e inequivocabile per sottolineare, con un linguaggio tipicamente cristiano, l'eccezionalità della congiuntura storica attuale, le prospettive straordinarie che essa apriva e la necessità che la Chiesa vi facesse fronte con un rinnovamento di grande profondità. Così avrebbe potuto presentarsi al mondo e indicare agli uomini il messaggio evangelico con la stessa forza ed immediatezza realizzata nella Pentecoste originaria.
Il richiamo alla Pentecoste, inoltre, poneva in primo piano l'azione dello Spirito e non quella del papa o dell'episcopato, come già era stato per gli apostoli e i discepoli, che si erano trovati ad essere oggetto dell'azione prepotente e travolgente dello Spirito. Su questa base il proposito e l'attesa di Giovanni XXIII rispetto al concilio prendono la loro dimensione più vera in ordine alla vita interna della Chiesa, alla sua unità e al suo posto tra gli uomini.
L'orizzonte di papa Giovanni appare, infine, ulteriormente dilatato sino ad abbracciare esplicitamente l'umanità nel suo insieme sotto la pressione non solo dell'impulso missionario, ma anche dell'impegno sempre più incalzante per la pace.
Quando l'11 ottobre 1962 Giovanni XXIII pronuncia in S. Pietro l'allocuzione Gaudet mater Ecclesia chiede all'episcopato convocato a concilio di impegnarsi in un approfondimento dottrinale e spirituale nuovo del patrimonio cristiano, che assicuri una più perfetta fedeltà alla dottrina autentica. Una ricerca dunque nel solco della tradizione, eppure tesa a conseguire livelli di fedeltà più avanzati di quelli cui si fermava il dibattito scolastico.
Il papa si spingeva anche a precise indicazioni di metodo. Secondo lui infatti il balzo innanzi sarebbe stato possibile mediante il ricorso alle "forme della indagine e della formulazione letteraria", elaborate dal pensiero moderno. Questo orientamento metteva in crisi quasi tutta la teologia cattolica moderna, che Chenu ha qualificato come "barocca", la quale non solo aveva il vezzo di esprimersi in latino, ma sembrava alimentarsi soprattutto all'opposizione e al rifiuto del pensiero moderno.
Cominciava così a delinearsi quel nuovo tipo di concilio intravisto da papa Giovanni e chiamato a una "penetrazione dottrinale" che si misurasse, invece che su un'astratta sistematicità della verità, su un servizio allo "spirito cristiano, cattolico e apostolico", producendo un'effettiva migliore comprensione del Vangelo. Con ciò Roncalli esprimeva un'ansia antica, che aveva avuto modo di manifestare embrionalmente, sin dal 1907, quando - celebrando a Bergamo il centenario del Baronio - aveva sostenuto l'opportunità e la legittimità del ricorso al metodo induttivo, trascendendo i fantasmi dell'anti-modernismo.
Pensando, convocando e avviando il Vaticano II papa Giovanni ha indicato una pista per il cammino del popolo di Dio nella comunione e nella responsabilità: "intesi a servire l'uomo in quanto tale e non solo i cattolici", come ha poi detto sul letto di morte.
Vi è stata una ricerca della comunione da entrambe le parti - papa ed episcopato -, agevolata da uno spontaneo consenso dell'episcopato verso il papa del concilio. Si è trattato perciò di un rapporto sempre in fieri, affidato alla dinamica della comunione (ma non per questo esente da incognite). Un rapporto di reciproca ricerca, nel corso del quale il papa ha salvaguardato la libertà dei vescovi senza venire meno alla propria originaria impostazione. È stata la scomparsa di papa Roncalli a interrompere o, almeno, a dilazionare l'evoluzione ulteriore di tale ricerca.
Lo stesso Giovanni XXIII ha attribuito inoltre al concilio la caratteristica della "pastoralità". Cosa significava presentazione pastorale del Vangelo e aggiornamento delle formulazioni della fede e della Chiesa? La svolta implicata da queste prospettive era complessa per le modificazioni che rendeva necessarie, al di là di ogni "modello" precostituito. Questa caratterizzazione è stata colta molto presto come un sintomo inequivoco di un concilio "nuovo", rispetto ai precedenti, nella misura in cui non è stato determinato dalla risposta a deviazioni eretiche - come i concilii antichi - , né da esigenze di organizzazione della Cristianità - come i Lateranensi -, né da emergenze - come Costanza, Basilea e Trento - né, infine, ha realizzato un progetto ben determinato - come il Vaticano del 1870.
Non avendo soltanto rinunziato a formulare condanne (anatemi), ma avendo evitato di enunciare la dottrina in termini assertivi (dogmi), ciò importa una diversità notevolissima nell'andamento e nella struttura degli atti e dei documenti del Vaticano II e implica anche la necessità di rivedere e di modificare la tavola tradizionale delle qualificazioni teologiche dei documenti stessi.
Già nel dicembre 1962 era chiaro al teologo Chenu che "il carattere pastorale è diventato il primo criterio della verità da formulare e da proporre e non solo il motivo delle decisioni pratiche da adottare. Dunque "pastorale" qualifica una teologia, un modo di pensare la teologia e di insegnare la fede, meglio: una visione dell'economia di salvezza".
"Aggiornamento", piuttosto che riforma della Chiesa - cioè ripristino di passata purezza -, voleva indicare disponibilità e attitudine alla ricerca verso il futuro, impegno globale per una nuova inculturazione della rivelazione. L'abituale dicotomia tra storia profana e storia sacra risulta superata, senza tuttavia pervenire a una sacralizzazione della storia, altrettanto inaccettabile. La storia viene riconosciuta come "luogo teologico", cioè realtà nella quale la fede può e deve alimentare la propria incessante ricerca del Regno, non per averne un possesso geloso, ma per farne la sede privilegiata dell'amicizia con gli uomini.
Le prospettive nuove indicate da Giovanni XXIII l'11 ottobre 1962 hanno trovato consensi tra la grande maggioranza dei padri conciliari, la sua "scommessa" sulla fecondità di un concilio posto nelle mani dei vescovi ha avuto un esito positivo. Ne è nato un concilio "nuovo". La teologia preconciliare avrebbe forse parlato di un "fatto dogmatico".
Infatti il Vaticano II è stato un concilio impegnato a rispondere in positivo, cioè riproponendo i contenuti evangelici essenziali, al futuro dell'umanità del terzo millennio, secondo i criteri della pastoralità e dell'aggiornamento. Ulteriori sintomi della novità sono stati l'attiva e cordiale partecipazione degli "Osservatori" delle Chiese non cattoliche, l'assenza dell'abituale tensione tra papa e concilio e il coinvolgimento generale della Chiesa come universitas fidelium. I fedeli, e spesso la stessa opinione pubblica, si sono sentiti coinvolti nel cammino di ricerca del concilio: res nostra agitur. Era, forse anche inconsapevolmente, la risposta al caldo e reiterato invito di Giovanni XXIII ad accompagnare la celebrazione del concilio.
Il rapporto tra papa Giovanni e il Vaticano II ha, dunque, delineato un concilio di tipo nuovo rispetto a quelli già collaudati dalla storia. Un concilio come grande liturgia di lode e di professione di fronte alle nazioni nel cuore della storia perché tutti gli uomini "possano raggiungere quelle eccelse e desideratissime mete che ancora non sono riusciti a conseguire". Un momento sinodale capace di coinvolgere tutti i battezzati intorno ai successori degli Apostoli nella lettura e interpretazione dei segni del tempo, in modo che la comunità sia responsabilmente in grado di offrire un servizio e dare una testimonianza.

4. Resistenze alla conciliarità

L'acquisizione delle nuove prospettive aperte dal Vaticano II è lentamente in corso, non senza opposizioni e contraddizioni. È opportuno farne almeno un inventario per comprendere meglio, superando l'irritazione viscerale, e - nel medesimo tempo - per approfondire la portata della svolta che si è verificata nella comprensione del fattore "sinodale" nella vita delle comunità cristiane e della Chiesa.
L'ostacolo forse principale è costituito dalla ricezione differenziata delle novità prima accennate. Infatti da parte dell'opinione pubblica esterna alle Chiese è ancora in atto un atteggiamento caratterizzato da un lato dalla critica - spesso severa - dell'autoritarismo e dell'accentramento rivendicati dal pontificato romano. Critica alla quale - da un altro lato - si unisce la condiscendenza nei confronti dell'esercizio accentrato dell'autorità da parte della struttura "clericale". La denuncia si accompagna cioè alla radicata convinzione della funzione conservatrice dell'istituzione ecclesiastica.
All'opposto, il popolo credente vive dolorosamente un'insofferenza sempre maggiore per la condizione di passività nella quale è relegato in seno alla Chiesa. È diffusa l'impressione che l'impulso conciliare sia stato diluito e frenato in tutte le direzioni. La riforma liturgica è tarpata nella sua portata di partecipazione. La scelta dei pastori è sottratta a qualsiasi coinvolgimento dei fedeli. La responsabilità dei Vescovi riuniti nelle Conferenze episcopali è circoscritta in tutti i modi, umiliando tradizioni venerande e carismi che potrebbero vivificare le comunità. Persino il Synodus episcoporum si è ripiegato su se stesso e si è isterilito, tradendo i semi di rinnovamento che implicitamente racchiudeva.
Persino l'impulso, suggestivo e fecondo, a una inculturazione della fede cristiana nell'humus dei popoli è stato mortificato nella formula della "nuova evangelizzazione". Malgrado il generoso impegno di papa Wojtyla nei numerosi viaggi apostolici, l'eurocentrismo, come egemonia di un solo stile di vita cristiana, minaccia di impadronirsi nuovamente del cattolicesimo. I "movimenti", tanto graditi e premiati a Roma, sembrano lo strumento di questa rinnovata centralizzazione.
Fatti come questi inducono a una riflessione più generale. Forse non si tratta più solo (?!), come poteva apparire negli anni Ottanta del secolo scorso, di una inadeguata assimilazione dell'ecclesiologia formulata nella Lumen gentium, ma sembra che la stessa acquisizione cruciale del Vaticano II, il solenne riconoscimento della libertà religiosa sotto l'unica sovranità della parola di Dio, sia messo in discussione. Infatti è proprio la libertà del cristiano e del popolo di Dio che è di fatto oppressa, conculcata e negata in tutti i casi ora ricordati e in numerosi altri. L'autorevole promozione e difesa dei diritti umani svolta da Giovanni Paolo II appare rivolta esclusivamente ad extra. Essa è sorprendentemente contraddetta in seno alla Chiesa.
Alle soglie del nuovo millennio questa appare la "frontiera" sulla quale si gioca la ricezione o il rifiuto del Vaticano II e delle prospettive di rinnovamento che si sono aperte. Lo stesso modo di concepire e di vivere la fede e la Chiesa sono in discussione. Accettare sino in fondo il Vaticano II significa sempre più guardare avanti senza nostalgie, vivere la fede come comunione col Padre e con tutti fratelli, dare alla Chiesa una fisionomia sinodale nella quale tutti possano decidere quanto riguarda tutti.

5. La conciliarità, futuro delle Chiese

Il rinnovamento innescato dallo Spirito col Vaticano II continua, tuttavia, a fermentare, sotto forma di sollecitazione ai credenti e alle Chiese a ricercare forme di testimonianza adeguate alle proprie condizioni storiche, piuttosto che come rigida determinazione di modifiche istituzionali imposte a tutta la Chiesa.
La Chiesa cattolica romana è oggi collocata in una prospettiva dinamica, come comunione di fede tra tutti i battezzati e come sinfonia di comunità locali inserite nelle società in cui vivono e impegnate nella ricerca della fedeltà al Vangelo. È una Chiesa che, restando fedele alla tradizione di essere dotata di un consistente apparato istituzionale, tuttavia riafferma la subordinazione della dimensione istituzionale all'evento.
Le altre Chiese cristiane e soprattutto il Consiglio ecumenico delle Chiese (WCC) di Ginevra hanno riconosciuto nei decenni più recenti una centralità alla "conciliarità", come esigenza di coralità nei vari aspetti della loro vita. A loro volta le Chiese orientali in comunione con Costantinopoli hanno avviato un complesso e faticoso itinerario di preparazione di un concilio panortodosso. Infine, anche il patriarcato di Mosca coltiva un progetto di concilio pan-russo.
La multiforme proliferazione di esperienze ecclesiali seguite al Vaticano II sembra dunque segnare una svolta epocale verso una più diretta ispirazione evangelica dell'essere della Chiesa, abbandonando i supporti di teoria politica e di filosofia sociale che hanno condizionato la concezione della Chiesa negli ultimi secoli, sino al punto da dare vita a una disciplina autonoma che la formalizzasse. Gli schemi classici, come quello verticale o piramidale e quello orizzontale, usati per connotare la struttura ecclesiale, appaiono destinati a rapida obsolescenza. Le diaconie delle diverse Chiese appaiono sempre più mobili, non esclusa quella della Chiesa di Roma e del suo vescovo.
"Rendere ragione della speranza che è in noi" (1 Pt 3,15) non è un'istanza spirituale impalpabile, ma un impegno puntuale, da cui nessuno è esentato e che è soprattutto stringente per tutti coloro che sono incaricati di una responsabilità di servizio.
Il tramonto delle grandi ideologie contemporanee lascia un grande vuoto, la secolarizzazione incalza: ciò offre una eccezionale occasione storica. Il bisogno di partecipazione, di coinvolgimento, di corresponsabilità è vivissimo, anche se talora latente. Le Chiese cristiane si trovano di fronte al kairòs di dare una risposta evangelica a queste istanze. È una chiamata a superare inerzie e timori paralizzanti per accettare di porsi nella prospettiva di "una nuova Pentecoste". Ogni volta che questa vocazione è delusa si innescano passività e abbandono.
Per riprendere un'antica distinzione, lo status ecclesiae, cioè il Cristo e la fede in lui, deve costituire sempre l'elemento comune e permanente della Chiesa, mentre gli statuta ecclesiae, cioè tutto ciò che attiene alla vita delle comunità, devono essere di nuovo il luogo del pluriformismo. Ne deriva il superamento di qualsiasi istanza univoca di tipo ecclesiologico e si apre la possibilità di una reintegrazione sempre più profonda della Chiesa, e della riflessione sulla sua vita, nell'universo della fede.
È dunque urgente un approfondimento dottrinale della conciliarità, che prenda le mosse dall'impulso liberante della avvenuta celebrazione di un "concilio pastorale", dopo i concilii dogmatici, disciplinari, di riforma istituzionale. Ciò significa che la relazione tra la Chiesa - comunione e comunità dei fedeli - e il concilio può avere anche un profilo programmatico, finalizzato al futuro.
Le conseguenze di questa svolta sono molteplici e di grande rilievo perché sottraggono la dimensione sinodale all'esclusiva funzione giudiziaria o normativa, comunque attinente al servizio ecclesiastico di ordinamento. Come in parte è stato nei primi secoli (e in seno a alcune tradizioni cristiane ancora oggi), sinodalità ritrova un significato ricco e complesso. Uno stile, cioè, con il quale ogni comunità cristiana, le Chiese e, infine, la grande Chiesa leggono - per l'oggi e per il futuro - i "segni del tempo" mettendoli a confronto con l'Evangelo eterno.
Così concepita, la sinodalità coinvolge direttamente ogni credente e ogni comunità, per piccola e "periferica" che sia. È un diritto cristiano e, soprattutto, un dovere che può dare alla testimonianza della fede un impatto e una autenticità nuove. Il monopolio clericale e episcopale della conciliarità può essere superato come una stagione storica gloriosa, ma conclusa. Nel rispetto dei carismi e dei diversi servizi, la valorizzazione della fondamentale uguaglianza battesimale può generare una nuova era di presenza cristiana, tanto più dopo la riscoperta della portata sacramentale del sacerdozio comune dei fedeli.
Con il Vaticano II e i pontificati della ultima metà del XX secolo si è giunti a una consapevolezza più piena e plenaria che nel passato della uguaglianza dei credenti. Proprio a questo proposito è stato dato un apporto rilevante alla coscienza sociale contemporanea. Il nuovo millennio si è aperto con il superamento delle disuguaglianze storiche tra uomo e donna, tra razze e culture, tra nord e sud del pianeta. Ciò apre possibilità di sinodalità in una misura nuova. È la vocazione a "camminare insieme", come dice l'etimologia di sin - odo. L'ecclesiologia classica riteneva che i concilii riguardassero il bene esse della Chiesa; d'ora in poi la conciliarità attiene all'essere della Chiesa. Le Chiese cristiane hanno la forza per intraprendere questa nuova stagione?
Dal punto di vista (per così dire) dello Spirito Santo non vi può essere dubbio, altrimenti la celebrazione del Vaticano II, che ha coinvolto l'intero cattolicesimo e - in larga misura - le altre tradizioni cristiane, sarebbe stato un drammatico inganno.
Dal punto di vista delle comunità - l'ecclesia peregrinans, si sarebbe detto una volta - si tratta di accettare e interiorizzare una grande svolta storica, come già è avvenuto per il passato, alla fine delle persecuzioni, dopo le lacerazioni dello Scisma orientale e la divisione successiva alla Riforma protestante. Oggi le Chiese cristiane - ogni Chiesa - sono sfidate a giocare la fedeltà al Vangelo e perciò la credibilità della loro testimonianza agli uomini vivendo in modo effettivo la koinonìa e dando alla comunione anche una coerente dimensione istituzionale nella conciliarità.
Forse i modelli del passato (sinodi, concistori, concilii, conferenze ecc.) possono servire ancora, a condizione che siano animati da uno spirito fresco di ricerca e siano finalizzati a comprendere le nuove istanze che lo Spirito pone. È anche possibile che siano necessarie nuove forme, capaci di un coinvolgimento più largo anche dei cristiani "comuni", donne e uomini. Quando, dopo il concilio di Trento, alcuni vescovi, me Carlo Borromeo, Bartolomeo de Martiribus e altri, hanno rianimato la tradizione sinodale l'hanno tuttavia riempita di contenuti nuovi, adeguati al nuovo tempo della Chiesa.
Le timide esperienze di partecipazione effettiva dei fedeli comuni alle istanze sinodali, sin qui realizzate, dovrebbero essere ulteriormente sviluppate con discernimento. Più che mai sono auspicabili esperienze esemplari e trainanti, che trovino il conforto e il sostegno dei numerosi successori degli Apostoli che condividono queste prospettive, ma che troppo frequentemente scelgono di rifugiarsi in comportamenti "nicodemiti "!
Più che mai, la responsabilità del rinnovamento incombe su ogni cristiano, ma certo tocca a chi ha ricevuto di più, dare di più, anche a prezzo di qualche rischio. Ma ogni rischio non è insignificante a paragone di quello corso dai discepoli sulla via di Emmaus, quando non hanno riconosciuto il Cristo?
Nella prospettiva appena schizzata anche il vescovo di Roma potrebbe ritrovare un ruolo proprio, rispettoso della veneranda tradizione petropaolina. Un servizio cioè di raccordo tra multiformi esperienze, di conoscenza delle diversità nella fraternità, di perno e fattore della sinfonia di unità.
Si può riprendere la profezia di Romano Guardini, auspicando che il nostro sia il secolo della conciliarità delle Chiese e tra le Chiese?

 
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