Il futuro del cristianesimo è un futuro deciso che avrà
un termine, che avrà una fine, che ha un eschaton, che dovrà
avere un culmine. In questa dimensione si vive il cristiano, se è
cristiano.
Certamente il cristiano, prima di pensare se avrà un futuro,
deve pensare cosa sia il futuro.
Ritengo che il futuro del cristianesimo è quello del secolo,
una interminabile durata oppure viene vissuto escatologicamente come
un futuro ultimo.
Se è vissuto in questa dimensione, è evidente che l'eschaton
non è il domani, il dopodomani dell'uomo. È un vivere
escatologicamente il presente, ogni istante, perché ogni istante
può essere l'ultimo.
L'ultimo non può sorprenderci come il ladro di notte. È
vissuto come ogni istante perché in ogni istante è atteso.
Chi vive il futuro escatologicamente, vive l'eschaton come ogni istante.
Questa è l'esperienza che palpitava nell'esperienza cristiana
originaria. E il cristianesimo può avere un futuro se può
fare memoria in sé di questa idea del futuro.
Che futuro può avere? Può avere il futuro di altri,
può avere il futuro di quella idea di futuro che lo pensa -
come il secolo lo pensa - come un'interminabile durata in cui alcuni
credono ci siano anche "meravigliose sorti e progressive";
altri, più disincantati, pensano che si vada avanti e indietro,
sopra e sotto ma che, comunque, si durerà in eterno. E quando
la terra sarà esaurita, prenderemo le astronavi, come dicono
i fisici americani, e colonizzeremo Marte, ecc. e l'uomo - grande
sogno averroista - il genere umano è infinito!
Questo è il contrasto fondamentale fra l'idea cristiana del
futuro e l'idea dominante di futuro , il contrasto fondamentale da
cui deriva il carattere di quel cittadino, di quel paradossale cittadino
che Agostino diceva essere il cristiano: un "civis futurus",
un cittadino che vive nella città ma che vive dominato, posseduto
da questa idea escatologica del futuro. Quest'idea non ha niente di
mitologico perché significa vivere il proprio presente in termini
escatologici ed essere, dunque, perfettamente, pienamente responsabili
perché, appunto, ogni istante può essere la fine e per
cui ogni istante per l'uomo deve essere un istante in cui si presenta
compiuto, in forma.
È quindi un'idea fortissima, sovrumana, di responsabilità,
perché in ogni istante l'uomo è chiamato ad essere pienamente,
a poter rispondere pienamente di ciò che è, di ciò
che fa.
Ebbene, questo "civis futurus" è chiaramente colui
che lotta contro quello che, per me, è l'idolo della città,
la quintessenza dell'idolo nella città. È un "civis",
cioè un cittadino, non è uno straniero, un "parrocus".
Sta nella città, vive nella città e, nello stesso tempo
è un "futuro".
Questa lotta contro l'idolo per eccellenza è una vera lotta.
Qual è quest'idolo? L'idolo per eccellenza è ciò
che vorrebbe eternizzare il futuro della "civitas" terrena.
Questa è la quintessenza dell'idolo: chi si presenta nella
città dicendo "questa città è eterna",
la "civitas" terrena è eterna, non ha fine: "imperium
sine fine". Questo è l'idolo. Cioè l'idea di futuro
che domina nel secolo è la quintessenza dell'idolo. Comprendere
la quintessenza dell'idolo da un punto di vista cristiano significa,
per l'appunto, vivere in sé quell'idea di futuro, quell'idea
pienamente escatologica del futuro.
Ma la cosa si complica ancora di più perché questo "civis
futurus", questa paradossale figura è inconcepibile nella
classicità, inconcepibile nello spirito ellenistico: l'uomo
è "civis" di questa "civitas" e deve riconoscerne
la fondatezza; anche se razionalmente sa che non potrà essere
eterna, deve concepirla come se potesse. La sua città è
il suo sangue, il "genus" che la abita. Ebbene, questo cittadino
futuro non è in una situazione paradossale rispetto alla sua
"civitas" soltanto perché appunto "futurus".
Lo è anche perché ha una memoria, fa memoria del suo
essere futuro, fa continuamente memoria di una decisiva sconfitta:
lui è stato in terra sconfitto.
Ritengo che trasformiamo il cristianesimo in una commedia se non ricordiamo
questo. Il "civis futurus", mentre appunto vive escatologicamente
il proprio presente, fa memoria costantemente del fatto che colui
da cui trae il nome è testimonianza di un'atroce sconfitta
in terra.
Ne deriva che il "civis futurus" nel momento stesso in cui
- per usare un'espressione dantesca - si "infutura", in
quello stesso momento lui fa memoria di tutte le sconfitte. Cioè
lui è nella posizione di colui che deve "redimere"
nel senso più forte del termine, redimere il passato e il passato
di tutti gli sconfitti, di tutti i crocifissi. Lui deve redimere questo
passato. Non basta che si "infuturi", nel senso che abbiamo
detto, se non porta con sé l'atrocità di tutta la storia
e non solo di una storia che ormai per lui deve essere giudicata.
Perché è chiaro che la storia continua, ma quella croce
è stata e ha giudicato il mondo; giudicato nel senso più
forte e più radicale che dopo quel sacrificio non ne sono più
concepiti altri. Come poter prendere un'altra croce per un sacrificio,
per qualcosa che attiene alla sfera del sacro? Qualunque croce dopo
quella croce, dopo la croce del Figlio di Dio, è omicidio e
basta, non ha niente di sacro, è orrido omicidio. Quel sacrificio
ha tolto la possibilità di vedere in ogni atto di violenza
qualcosa che attiene alla sfera del sacro, ha delegittimato ogni violenza
e nel modo più radicale, totale, assoluto. Se non si vive così
non ha senso, secondo me, dirsi cristiani. E allora il cristiano si
"infutura" recando con sé questo giudizio sulla storia
che è un giudizio che redime tutti gli sconfitti, tutti i sacrificati,
cioè tutti gli uccisi della storia. La storia, ormai, dopo
Cristo, può solo uccidere.
Ma se il cristianesimo non ha questo spirito di profezia chi potrà
convincere? A chi potrà parlare? Non c'è più
spazio per un cristianesimo di compromesso. Gli spazi dei compromessi
sono stati liquidati dai processi di razionalizzazione, di illuminismo,
di secolarizzazione.
Vi parlo da non credente, perché credere nel cristianesimo
vuol dire credere e sentire che Gesù di Nazareth è il
Cristo, il Messia promesso. Questo non significa una vaga religiosità
del cuore, sentimentale, che non ha niente a che fare con la forza
di Cristo.
O il cristianesimo riassume in pieno e riesce di nuovo ad essere dotato
di spirito profetico o non ha futuro in nessun senso del termine.
Ma questa forza, io ritengo, è una forza straordinaria, questo
mettere in dubbio, in crisi appunto, il senso che la doxa, che l'opinione
comune, ha del futuro della propria città e del proprio appartenere
alla città, del proprio interesse nella città. Mettere
in crisi il senso che l'opinione comune dà al passato perché
l'uomo ritiene il passato il puro e semplice "così fu"
e fine. L'umanità non sente nessuna responsabilità nei
confronti del passato, continua a contrabbandare i suoi omicidi come
sacrifici.
Se il cristianesimo non contraddice in "en-parresia", con
parole franche, libere, questo senso comune, se non porta fuoco e
spada in questo mondo, non ha senso. Naturalmente tutto ciò
è faticoso, è doloroso, è penoso perché
questo mette "a rischio" prima di tutto il nostro ego, in
linguaggio evangelico la nostra "philopsychia", il nostro
naturale attaccamento al nostro io.
Ovviamente, questa prospettiva può fondarsi soltanto su una
certa idea di fede. Perché se non vogliamo contrabbandare,
appunto, la fede cristiana per vaghi sentimentalismi, la fede deve
essere una certezza; cioè chi ha fede deve essere davvero certo
di ciò di cui dice aver fede. La fede ha a che fare con la
dimensione della certezza, anche filosoficamente.
Ma quale certezza? Perché molte volte, appunto, questa fede
viene predicata e pronunciata e testimoniata come fosse una certezza
che assicura di fronte ai rischi, di fronte ai problemi, di fronte
alle contraddizioni del mondo. Come fosse una "securitas"
che "se-cura", che toglie la cura, che toglie l'angoscia,
che toglie l'affanno, che toglie la pena, che guarisce Giobbe. No,
la fede non guarisce Giobbe. Giobbe rimane lì e Gesù
Cristo, quando risorge le piaghe le ha ancora e se le fa toccare.
Non è guarito, il Crocifisso, è lì e continua
ad essere crocifisso anche dopo risorto.
E allora, questa fede cos'è? . È certezza intorno alle
cose che non sono evidenti. L'evidenza della fede non è l'evidenza
di ciò che appare, né agli occhi del corpo né
agli occhi semplicemente della mente. La certezza della fede non può
essere assicurata a nessuna evidenza. La risposta della fede - di
nuovo il tema della responsabilità - è una risposta
alla voce che parla in noi, in ogni singolo. È la certezza
di quella voce, di ascoltare quella voce che parla in ogni singolo
e che parla di cose non evidenti, "non apparentium", che
non sono evidenti né alla mente né al corpo, né
alla percezione (l'aistesis), né alla mente (il nous). Quindi
una fede che va predicata come niente affatto assicurabile, niente
affatto "se-cura", con la dimensione del dubbio, con la
dimensione dell'angoscia. La formula più efficace, secondo
me, è quella di Kierkegaard che definiva la fede "un'angosciosa
certezza". O si tengono insieme queste due dimensioni o, secondo
me, il cristianesimo non ha futuro.
Quando la fede argomenta - perché la fede dev'essere anche
discorso, non può essere una fede negligente - intorno a ciò
che non appare evidente, la sua verità, la verità cristiana,
non può avere a che fare con la verità come risuona
nel termine classico greco "a-letheia", non può essere
la verità dell'evidenza. Perché la verità greca
è la verità dell'evidenza. C'è un abisso fra
la verità che si dice nella testimonianza cristiana e la verità
della "sophia". È un abisso perché qui si
parla della verità, di ciò che non è evidente,
che non è disvelato, che non è scoperto.
Pertanto, se è così, è evidente, mi pare, che
ne consegue che sia impossibile affermare che un'unica via conduca
all'"Amato". È vero che dice "io sono la via",
è vero che il cristianesimo riafferma questo. Ma appunto quella
via, necessariamente viene percorsa dai singoli, dal singolo. L'essere
"una" la via non significa "un" modo, "un"
passo, "un ritmo" secondo cui percorrerla.
Se perdiamo l'idea di singolarità personale perdiamo l'essenziale.
Dove soffia lo Spirito? In quale dei modi di percorrere la via soffia
lo Spirito? Questa è la profezia nel senso non stupido del
termine. Ciò che dice davanti a noi la testimonianza cristiana:
che questa fede non è in alcun modo un'assicurata "reductio
ad unum", a cui tutti noi ci assicuriamo in una dimensione, in
un linguaggio, in un pensiero. No, il futuro di questa fede è
il futuro di una "concordia oppositorum".
Il profeta di questo eschaton, secondo me, fu il fondatore della letteratura
europea, Dante Alighieri. Il "Paradiso" di Dante è
esattamente questa "repubblica", "civitas" dice
Dante, in cui finalmente le singolarità si definiscono ma si
definiscono non più contrapponendosi strettamente le une alle
altre; si definiscono come perfette singolarità in quella via
d'amore. Le singolarità non vengono negate ma, all'opposto,
vengono redente, riscattate. E allora, Tommaso, Francesco, Bonaventura,
Domenico, intelletto, amore, la figura perfetta dell'intelletto, la
figura perfetta dell'amore e, con loro, i loro nemici in terra che
in Paradiso rimangono caratterizzati secondo la loro figura.
Questa è la grande profezia, cioè una civitas in cui
i distinti rimangono perfettamente distinti, in amicizia. Un'a-micizia,
una "philia" dei perfettamente distinti, senza nessuna fede
che voglia ridurre ad uno, senza nessuna fede che voglia assicurare,
senza nessuna fede violenta, che ritenga che la sua certezza è
la certezza di qualcosa di evidente che va da tutti accettata come
il principio di non contraddizione. La grande profezia dantesca!
È su questo spirito di profezia, non nel senso stupido del
termine di vedere cosa succederà domani, dopodomani, ma nel
senso filosofico, storico, politico, che tutto si gioca, secondo me
anche dal punto di vista non credente, del futuro del cristianesimo. |