I cristiani hanno una parola da dire “in quanto cristiani” sull’Europa? La risposta non può che essere positiva: essi sono cittadini della polis europea e, come tali, partecipano alla storia di questo continente senza esenzioni né evasioni. La “nuova” Europa diventa una sfida anche per i cristiani che nell’attuale congiuntura devono portare il loro contributo specifico alla configurazione di questa entità. In Europa i cristiani sono presenti da due millenni, hanno contribuito alla creazione di una civiltà plurale, hanno fornito l’etica e, ancora nell’epoca moderna, hanno di fatto impregnato la cultura, la storia e le istituzioni di questo continente. Ci sono alcuni contributi fondamentali che il cristianesimo ha fornito e che l’Europa, oggi in crisi di valori, avrebbe interesse a riconoscere e recuperare: l’affermazione della dignità della persona umana, la centralità della ragione, la solidarietà sociale, la comunità...
Ma i cristiani hanno anche una “parola cristiana” da dire sull’Europa? Qui la risposta si fa più difficile. L’Europa, infatti, non è un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa e la sua stessa unione è un progetto non esente dalla tentazione di Babele: il progetto Europa interessa i cittadini cristiani, ma l’Europa non è, né può essere, la Gerusalemme celeste che scende dall’alto, e non è neppure il popolo di Dio! Occorre molta vigilanza per evitare enfasi e ambiguità: il progetto Europa abbisogna del contributo cristiano, ma su di esso i cristiani non devono fare proiezioni teologiche. I cristiani, inoltre, non possono dimenticare che ogni tentativo di unificazione di popoli diversi è sì positivo, ma a condizione che non si realizzi “contro” altri popoli o altre aree del mondo, che si spengano i nazionalismi e non si inneschi la miscela esplosiva di religione e patria! Sarebbe non solo politicamente e socialmente disastroso, ma radicalmente antievangelico. Sì, a volte ho purtroppo l’impressione che alcune voci che invocano un’Europa unita non tengano presente con chiarezza lo “statuto” cristiano in questo mondo e finiscano per progettare una nuova cristianità europea capace di coniugare potenze economiche, politiche e culturali con la religione. Si vuole davvero un’Europa senza un’ideologia eurocentrica, uno spazio di pace, di confronto e di dialogo tra le diverse culture, rinunciando a ogni tipo di egemonia, oppure si vuole altro?
È significativo notare come la recente firma della Costituzione europea e il processo della sua ratifica da parte dei singoli stati abbiano riacceso il dibattito sulla storia dell’Europa e, insieme, risvegliato il rammarico di molti credenti per la mancata menzione delle radici cristiane nella carta costitutiva del nostro continente. Si è preferito tacere una verità storica, dimenticando che riconoscere il proprio passato – con le sue luci e le sue ombre – non significa identificarsi con esso: così, menzionare che il cristianesimo ha contribuito in modo determinate alla formazione della cultura europea e dell’idea stessa dell’Europa non sarebbe equivalso ad affermare che ancora oggi il cristianesimo fornisce un’identità collettiva all’Europa. “Riconoscere la nostra appartenenza a una società che vuole indagare i fondamenti della propria legittimità – scrive Paul Ricoeur – costituisce un atto di veracità” e il percorso può essere solo il risalire la lunga storia, il “racconto” a più voci le cui radici affondano nell’etica greca delle virtù, nella romanità, nel cristianesimo – a volte in confronto-scontro con l’ebraismo e con l’islam, altre volte in tensione o rottura al proprio interno – nell’illuminismo… Forse si è avuto il timore che dalla menzione delle radici cristiane si fosse obbligati a dedurne che l’Europa di oggi è cristiana e che al cristianesimo deve ispirarsi.
Da più parti si sono fatte letture severe sull’attuale condizione dell’Europa: timorosa nella piena assunzione del proprio passato, ma anche “stanca”, con le sue democrazie divenute materialiste ed edoniste, affette da nichilismo, incapaci di aprire un futuro al continente. Il cardinal Ratzinger parla di un’Europa che “nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto”, come fosse “svuotata dall’interno”. Sono giudizi duri, che a volte cedono all’identificazione, semplicistica e rischiosa, tra Europa e occidente, magari saldando entrambi con il cristianesimo; ma non va dimenticato che oggi, a differenza di un tempo, l’Europa ha un’enorme risorsa: la capacità di essere critica. Risorsa preziosa per un pensiero e una cultura plurale e aperta al futuro: infatti, come ha mostrato con chiarezza Hanna Arendt, proprio l’acriticità ha dato origine ai totalitarismi. Sì, è questa, nel bene e nel male, l’Europa in cui viviamo tutti come cittadini e i cristiani come discepoli di Gesù Cristo, è questa l’Europa in cui dobbiamo assumere precise responsabilità perché il suo futuro sia a servizio dell’intera umanità e contrassegnato dal dialogo, dal confronto tra le diverse culture e religioni, dalla ricerca della giustizia e della pace per tutti.
In questa Europa i cristiani non sono né perseguitati, né assediati – ce lo ha ricordato recentemente anche un acuto editoriale di Civiltà Cattolica – ma, anzi, sono invitati a un confronto con la modernità, con la complessità, con il pluralismo culturale, religioso ed etico. Certo, i cristiani dovrebbero avventurarsi in questo confronto fiduciosi nella forza di impatto dell’umiltà cristiana, non mettersi in concorrenza con eventuali e momentanee arroganze di altre religioni, dovrebbero essere pronti a rinunciare a certi diritti e privilegi, acquisiti nel passato ma che oggi costituiscono un ostacolo per una proposizione credibile della loro fede. La via kenotica, dell’umile abbassamento, percorsa da Cristo è l’esempio che i singoli cristiani e le chiese sono chiamati a seguire. Secondo la bella espressione di Martin Buber, “il successo non è uno dei nomi di Dio”, e quindi i cristiani non saranno ossessionati dal dover ottenere risultati che rispondono più a una logica di riconquista che non a una comunicazione della fede come il vangelo la vuole e la determina.
Qui si impone una precisazione sulla cosiddetta “nuova evangelizzazione”, quello sforzo in cui si è da anni impegnata la chiesa ma che non può assurgere a panacea che sana i problemi della modalità di presenza cristiana e del suo apporto all’edificazione della polis europea. Nuova evangelizzazione non significa imporre all’Europa il vangelo e l’appartenenza alla chiesa, non significa effettuare una retroevangelizzazione che ci riporti a un occidente cristiano precedente la modernità, tanto meno significa tentare un futuro confessionalistico che non tenga conto dell’orizzonte ecumenico assunto soprattutto dal concilio e dal pontificato cattolico di questi ultimi decenni. “È l’ora di uscire da ogni strettoia confessionale – scrive il teologo Jürgen Moltmann – per avanzare insieme al largo. È l’ora dell’ecumenismo per una nuova Europa, altrimenti le chiese diventeranno religione del passato”. Evangelizzazione e dialogo dunque, perché evangelizzare significa anche ascoltare il mondo, ascoltare gli uomini e le donne di oggi per poter annunciare loro la buona notizia in un linguaggio comprensibile. Più che mai valgono queste parole di Paolo VI: “La chiesa entra in dialogo con il mondo in cui vive, la chiesa si fa parola, la chiesa si fa messaggio, la chiesa si fa conversazione” (Ecclesiam suam 67). La comunicazione della fede deve dunque essere un processo spirituale che inizi le persone al mistero della loro esistenza e non un indottrinamento dogmatico e morale, non deve forzare la porta delle case per portare il suo messaggio, né tanto meno per convertire qualcuno a qualsiasi prezzo.
La chiesa non può sentirsi e comportarsi come una fortezza assediata, anche se all’orizzonte europeo apparisse un atteggiamento aggressivo da parte del mondo non cristiano: fin dai suoi inizi, infatti, la chiesa sa che l’ostilità nei confronti del messaggio del vangelo non può essere né rimossa né evitata. Nessuna tentazione di mobilitazione di ordine politico, nessuna chiamata in soccorso lanciata a quegli “atei devoti” – o, meglio, “atei clericali” – che, da sempre estranei o diffidenti verso il cristianesimo, oggi lo scoprono come possibile strumento utile a consolidare il loro posizionamento nella società. I cristiani sappiano anche evitare ogni manifestazione di integralismo che crea per reazione diffidenza e ostilità da parte dei laici: il nostro passato e la laboriosa convivenza raggiunta dovrebbero averci insegnato che laicismo e clericalismo si nutrono a vicenda. Quando i cristiani manifestano sfiducia nella forza evangelica propria dell’umiltà cristiana e dell’inermità della fede, quando progettano una “religione civile” cercando di instaurare presìdi e tentando alleanze strategiche con chiunque offra un appoggio alla forza di pressione cristiana nei confronti della società, allora confondono la chiesa con il regno di Dio, progettano una cristianità che appartiene al passato, che non può essere risuscitata e che, soprattutto, contraddice la buona notizia di Gesù.
Sgomberato il campo da possibili fraintendimenti, possiamo dunque formulare in altro modo gli interrogativi da cui siamo partiti: i cristiani hanno ancora qualcosa di specifico da dare all’Europa? Innanzitutto, mi pare sia di non poca importanza il fatto che oggi i cristiani di ogni chiesa condividano in larga parte la convinzione della necessaria distinzione tra religione e politica. Finita la cristianità, i cristiani si sono scoperti minoranza o, comunque, non più soli nella società europea e hanno imparato dalla storia che la fede cristiana non può identificarsi con l’ordine politico. Giovanni Paolo II nel 1988, di fronte al Parlamento europeo confessava che nei secoli della cristianità sovente si era perduto di vista il principio proclamato per la prima volta da Gesù della distinzione essenziale tra politica e religione, tra ciò che compete a Cesare e ciò che compete a Dio. Negare o sminuire questa distinzione è una tentazione costante, mai vinta una volta per tutte, e colpisce sia i “difensori” di Dio che quelli di Cesare: così sempre troviamo quanti vorrebbero identificare la fede cristiana con l’ordine politico, auspicando di fatto uno stato confessionale e quanti vorrebbero specularmente un ordine politico sostenuto e garantito dalla religione, con l’esito della “religione civile”. Occorre riconoscerlo con franchezza: le tensioni tra chiese e governi si accenderanno sempre più se il principio di laicità sarà minacciato su un versante da un laicismo che non consente alle fedi la manifestazione pubblica e, sull’altro, da una nuova forma di confessionalismo che vorrebbe imporre a una società etnicamente, culturalmente ed eticamente plurale la propria posizione di pensiero e di prassi come esclusiva.
Ebbene, i cristiani oggi non vogliono uno stato confessionale cristiano, ma ambiscono a uno stato segnato da “una giusta laicità” – secondo un’espressione utilizzata da Giovanni Paolo II nel febbraio del 2003 – in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati, a qualunque fede, etica e cultura appartengano. Certo, questa “giusta” laicità non è laicismo ideologico né esclusivista, ma è fatta di rispetto o di neutralità positiva. Proprio per questo, da parte loro i cristiani vigileranno affinché al loro interno non prevalgano quelle derive integraliste, fondamentaliste e settarie presenti ed efficaci nelle diverse chiese in questi ultimi decenni. I cristiani oggi considerano la laicità come un’opportunità e di fatto già ne traggono dei benefici, anche se, prigionieri di nostalgie del passato, non sempre tutti ne sono coscienti: non è forse la laicità che permette ai cristiani di essere presenti senza arroganza ma senza complessi di inferiorità nell’agorà della cultura, nel confronto etico, nelle iniziative di solidarietà?
Si tratta, in un certo senso, di un aiuto a riscoprire il profondo legame e, al contempo, la chiara distinzione tra la fede cristiana e l’impegno nella polis: la fede in Gesù Cristo non è evasiva ma si colloca nella storia, ispira l’agire dei credenti ma non genera messianismi mondani o utopie ideologiche. Un documento anonimo cristiano del II secolo d.C. – la lettera A Diogneto – indica con una chiarezza e attualità rare come i cristiani “vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano alla vita pubblica come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri; ogni nazione straniera è patria loro, e ogni patria è straniera…”. Consapevoli che la loro vita rappresenta per molti aspetti una differenza e che per questo possono diventare segno di contraddizione per la società, i cristiani mostreranno un “comportamento bello” – secondo l’espressione dell’apostolo Pietro – in mezzo ai non cristiani, mostreranno che la “differenza cristiana” nasce dal lasciarsi ispirare dal vangelo di Gesù Cristo e testimonieranno così, senza proselitismi, la loro speranza. La loro presenza nella società sarà allora “compagnia”, il loro rapporto con gli altri “sympatheia”, la loro dimora sulla terra una convivenza serena. I cristiani, proprio perché attendono il regno e la venuta del loro Signore, guardano al futuro con speranza e vogliono continuare a dire, meglio, a essere una “buona notizia”, un “evangelo”, come il loro Signore ha chiesto ai suoi discepoli. Così i cristiani cercheranno di aprire cammini assieme agli altri uomini, con loro si sforzeranno di edificare la polis senza titoli di privilegio, senza ricette infallibili, senza pretese di egemonia. Il vangelo, infatti, ispira i loro progetti ma non ne detta la forma di realizzazione, da ricercarsi assieme agli altri cittadini non cristiani.
Esiste infine un ulteriore contributo che i cristiani dovrebbero dare per essere veramente fedeli al vangelo e autenticamente “profetici”: la ricerca dell’unità. Unità dei cristiani, innanzitutto: se i discepoli di Gesù Cristo continuano a essere divisi, a opporsi tra loro, se non riescono nemmeno a incontrarsi per discutere i motivi di dissenso (come avviene invece addirittura tra schieramenti politicamente opposti o tra governi ostili), se di fatto con il loro proselitismo fomentano il “mercato delle fedi”, allora il loro stesso agire per il progresso della fede risulterà depotenziato e la loro eventuale e occasionale alleanza su singoli aspetti della normativa europea sarà letta dai non cristiani come unione strategica, come lobby volta ad acquisire peso e potere presso le istituzioni politiche. Tra le chiese occorre che l’ecumenismo, formalmente dichiarato come impegno irrinunciabile, divenga un atteggiamento quotidiano che non consenta a una chiesa di avanzare senza l’altra o, peggio ancora, contro di essa: solo così si potrà predisporre tutto in vista di una comunione autentica e feconda. La chiese d’Europa hanno elaborato, discusso e approvato insieme una “carta ecumenica”, ma questa va realizzata giorno dopo giorno, con audacia, pazienza e tenacia.
Ma l’unità delle chiese deve essere perseguita anche come servizio all’unità dell’umanità: i cristiani devono collocare ogni processo di unità in una prospettiva universale, a servizio dell’intero genere umano. Un impegno per la concordia tra le genti e le culture va accompagnato dalla ricerca convinta della pace, dall’educazione alla convivenza pacifica delle nuove generazioni cristiane che non hanno conosciuto gli orrori della guerra, da uno sforzo a evitare qualsiasi scontro di civiltà e a volgere invece le tensioni in occasioni di confronto e di arricchimento reciproco. Allora si potrà andare verso una mondializzazione della solidarietà, una globalizzazione della giustizia e della pace. Solo così si potrà sempre di più pensare e progettare insieme, cristiani e non cristiani, la “governanza mondiale”, obiettivo per il quale un’Unione europea capace di umanesimo potrà dare il suo fondamentale contributo. |