Buongiorno a tutti. Tocca per l'appunto infine all'improvvisatore, che come tale è anche l'unico che si presenta senza un testo scritto e reagisce a ciò che ha ascoltato. Ho avuto il privilegio di leggere in anticipo la relazione di Moltmann, su quella mi soffermerò più diffusamente. Lo faccio con una certa timidezza perché mi si affollano naturalmente le domande, a partire dall'emozione che mi ha suscitato l'ultimo intervento di Mons. Sudar e dalla domanda intorno a questa Europa che lui ha voluto definire qui “malata”. Mi viene da chiedermi: davvero “malata”? Non sarebbe forse più opportuno definirla “convalescente”, visto il secolo dal quale stiamo fuoriuscendo, viste le tragedie che qui si consumarono lungo quel secolo e di cui la sua terra ha sperimentato troppo di recente una recrudescenza. Ma questo è il clima. E' il clima che ci parla di un'“Europa malata”, di un “complotto contro i valori della vita”, di un diffuso pessimismo, di una sfiducia che investe tutto in tanti credenti. E allora non vi stupisca che, dovendo io in qualche modo qui indegnamente rappresentare un punto di vista ebraico, mi sento costretto a invece piegare la mia sensibilità – e spero anche la vostra – in direzione della speranza, della fiducia e dell'ottimismo.
Proprio perché debbo rappresentare una tradizione che forse è la più antica tra quelle qui su questo palco, appunto, presenti, sopravvissuta a millenarie dispersioni e persecuzioni fino al culmine di sessanta anni fa, ecco io mi sento di dire che non mi ritrovo fino in fondo nella definizione di un'Europa contemporanea come “vulcano spento” né rimpiango troppo quei “fuochi d'esaltazione” a cui Moltmann faceva riferimento, perché mi spaventano un po' – mi spaventa un po' il richiamo a quella esaltazione. Non voglio qui fare un discorsetto di politica contingente, legato alla maggiore o minore fiducia che noi dovremmo riporre nelle nuove istituzioni politiche e unitarie del continente, alla opportunità o meno di, come dire, ridimensionarle come semplice strumento economico, come semplice moneta comune oppure investire l'aspettativa che rappresentino qualche cosa di più grande per il futuro. Ma non è di piccola politica contingente che io voglio naturalmente riflettere con voi. Credo al contrario che proprio il tragitto del mio popolo e la sua esperienza anche terribile – non solo terribile – in questo continente, che mi porta oggi a potermi sentire concittadino fra voi (anche se in realtà sono residente sull'altra sponda del Po: ma insomma, i campanilismi li superiamo in un convegno così poco provinciale e così rivolto a un tema grande).
Ecco, io credo che questo autorizzi alla speranza: a partire però dalla constatazione che in effetti c'è molta confusione e c'è molta confusione anche dentro di noi, e dunque quella idea di “Europa malata” a tal punto va per la maggiore che la possiamo ritrovare – chi l'avrebbe detto qualche anno fa – su un titolo di prima pagina del più diffuso quotidiano italiano di questa mattina: “il continente euro-islamico”. Ve lo sareste aspettati un titolo simile, qualche anno fa, sul Corriere della Sera? Siamo – io credo – un po' nervosi tutti quanti. Del resto è faccenda davvero contemporanea. Io credo che al tempo in cui Carlo Magno fondava il Sacro Romano Impero c'era un pezzo importante dell'Europa che era per l'appunto islamico, era la Spagna. Al tempo in cui veniva fondata la Santa Alleanza ugualmente c'erano territori importanti del nostro continente che stavano sotto l'Impero Ottomano. Ma nessuno, proprio nessuno, parlava di “continente euro-islamico” allora. Ora io non so se questo dipenda semplicemente dal fatto che c'era più fede, o più fiducia, non ho nessun rimpianto per quei tempi andati. Ma voglio interrogarmi insieme a voi sul perché questa sensazione sfiduciata assuma forme diverse. La malattia, il pericolo dell'invasione, dello svuotamento spirituale. Forse qualcuno pensa con la crisi degli Stati-Nazione che a lungo si sono voluti definire cristiani, identificando religione e politica, come ricordava Enzo Bianchi, si torni a una nuova dimensione sovranazionale ma confusa, in cui potentati e signorie locali debbono fare i conti con nuovi poteri di dimensione appunto soverchiante che, appunto, possano richiamare il tempo del Medioevo – quanti storici fanno questo parallelo. Un nuovo Anno Mille staremmo vivendo, con i suoi presagi di Apocalisse imminente, così come venivano percepiti allora. Per altri fra i credenti invece si sente e si avverte il bisogno di difendersi evocando lo spirito dei tempi della Controriforma, quando era la Chiesa che si proponeva come “aggregatrice della società”. E quando un Giovanni Botero poteva attaccare Machiavelli rivolgendosi ai principi e dicendo loro che il Cristianesimo è lo strumento ideale per sottomettere le anime e per dunque garantire fedeltà a loro, ai sovrani. Ecco, ancora – minoritario in termini espliciti, ma diffuso – è il sentimento di chi vede come spostarsi il baricentro di questa Cristianità laddove si è spostato il baricentro della supremazia strategica dell'Occidente, oltreatlantico, da Roma a Washington, in una sorta di conversione o di riconversione di quella nazione. Una riconversione spirituale che la vede capace di esprimere una energia, una energia vitale che guidi l'Europa che sarebbe viceverso “spenta”. Ma davvero ne siamo così certi che – appunto il vulcano – si sarebbe “spento” lo spirito e l'energia europea? Siamo sicuri che per esempio che il nostro diverso approccio alla guerra, alla disponibilità di combattere, sia frutto semplicemente di senilità, di decadenza, di vuoto spirituale, di incapacità di credere in qualche cosa? Dunque l'energia della fede si esprimerebbe solo in mobilitazione identitaria? Io sinceramente non penso che sia così. È qui la “scorciatoia” che prima Ambrosini, poi Bianchi hanno ricordato della “religione civile”del reimpossessarsi del Cristianesimo senza Cristo, del Cristianesimo come ideologia ai fini di ricompattarci – magari equivocando, e pensando che così abbiano fatto gli altri, che così abbia fatto l'Islam e che dunque in un certo senso noi dovremmo seguire il suo esempio – ecco questo io slogan indicibile credo che manifesti questa debolezza e questo pessimismo, questa sfiducia nel futuro. Con effetti francamente paradossali, rapidi cambiamenti di fronte di intellettuali e politici non credenti i quali di colpo assumono l'imperativo “dobbiamo sentirci e dobbiamo dirci cristiani”. Gli stessi che magari soltanto due o tre anni fa si battevano contro l'introduzione di un riferimento al divino nel preambolo della Costituzione Europea. Oppure anche una rilettura tutta ideologica in quanto appunto ex-post e frettolosa e sbrigativa di ciò che unirebbe la nostra civiltà. E io sono molto grato a Enzo Bianchi per non aver adoperato quest'oggi tra voi il prefisso telefonico della civiltà ebraico- o giudaico-cristiana, col trattino che si mette davanti quasi a voler oltrepassare con un colpo di reni – ai fini appunto di necessità contemporanee – le nostre capacità di rilettura di una continuità che per diciannove secoli è stata viceversa contestata, negata, tra la esperienza ebraica e l'esperienza cristiana. Noi sappiamo – e la storia del nostro continente in particolare ce lo dice – che è stata vicenda di contrapposizione e di persecuzione e di disprezzo e di grandissima fatica recente a riconoscere l'elemento della continuità, e a non rimuoverlo. E dunque non si risolve il tutto attraverso una sbrigativa appunto aggiunta.
Si pone qui un altro tema sul quale ci siamo interrogati e abbiamo ascoltato persone ben più autorevoli di me, che riguarda il baricentro delle fedi e delle spiritualità religiose: è ancora possibile definirlo sul piano territoriale? Quando si parla di Europa cristiana, che cosa si vuole indicare? E ci è stato spiegato che non esiste più nei termini del passato la possibilità di definire un epicentro. Ricordo che di questo ho conversato qualche anno fa, prima di quella data decisiva che è stata l'11 Settembre del 2001, sulla quale qualche domanda ancora vi farò e vi rivolgerò, con il Cardinal Ruini, in un'intervista che mi aveva concesso e che ho riletto per prepararmi alla giornata di oggi, quando lui diceva – ed eravamo alla vigilia del Giubileo del 2000, ripeto, prima dell'11 Settembre del 2001 – “io credo che la Chiesa” – sono parole di Ruini – debba concentrare il suo massimo sforzo nel misurarsi con le sfide culturali in Europa e nell'America del Nord, cioé nelle società che pesano di più sul futuro dell'intero pianeta. Se accadesse di perdere qui, non per motivi politici (che so, a seguito dell'avvento per mano militare di un'altra religione, o a causa dell'instaurarsi di sistemi totalitari come quello comunista) per la dispersione dei riferimenti cristiani invece, ebbene si porrebbe un problema drammatico”. Tenere – ecco, vedete, questo tipo di sensibilità precedeva l'11 Settembre – tenere e resistere nelle casematte negli epicentri strategici, come l'Europa e l'America del Nord, identificati appunto come un baricentro prevalente. Io credo che questo sinceramente sia più difficile immaginarlo nel mondo delle fedi deterritorializzate o diffuse mondialmente appunto. Pensate che è sempre meno vero anche nell'esperienza ebraica, che pure com'è noto ha un riferimento molto forte, direi quasi fisico, alla terra, alle pietre della città di Gerusalemme, a quei luoghi. Neanche mezzo secolo dopo la nascita dello Stato di Israele, volevo dire, la rinascita di uno stato ebraico, è già di nuovo molto, ma molto difficile immaginare una dialettica interna all'Ebraismo che veda lì il centro diffusore, irradiatore di valori e di indicazioni e nella diaspora semplicemente il ricettacolo che segue. Non è più così, è ormai difficilissimo suddividerci tra ebrei della diaspora e ebrei che sono rimasti e che magari hanno poi sono andati altrove. Figuriamoci se questo non valga anche per la Cristianità. Io credo che qui il punto decisivo sia un altro, e cioé che quando parliamo di questa “speranza” d'Europa, parliamo di una costruzione universalistica che si vede protagonista di un progetto che è ancora più grande di lei, generata dalle macerie del ventesimo secolo, insieme ai primi tentativi di elaborare quella tragedia, di riflettere su quella tragedia – attraverso i “rimorsi” del titolo di questo nostro incontro – e per elaborarne, e per trarne l'insegnamento di un diritto davvero internazionale e quindi anche di una costruzione unitaria per l'Europa. La speranza universalistica è proprio questa del riconoscersi uguali pur nella diversità, del ricordare che la parola “identità” ha la stessa radice di “identico”, non è invece premessa necessaria per l'esaltazione delle differenze tra di noi. Questo è stato lo spirito universalistico che si è riproposto e che è quello che lega anche le grandi religioni monoteiste, e che fa sì che tutte quante stiano oggi vivendo una crisi, che le accomuna in realtà, non vede l'Islam all'attacco e il Cristianesimo o l'Ebraismo in difesa, ma le vede tutte quante vivere la stessa difficoltà di relazione con il moderno. Proprio perché a essere minacciata oggi non è una Chiesa, una fede religiosa singola, ma semmai proprio quel paradigma culturale universalistico a cui facevo riferimento. Questo sì biblico, e dunque ebraico e cristiano, ma poi anche riconfermato a suo modo nell'Islam e, nel passato della riflessione anche del tempo dell'Illuminismo. Il principio secondo cui gli uomini sono davvero tutti uguali di fronte al Signore e di fronte anche, in prospettiva, alla legge terrena. Questo principio troppe volte noi diamo per scontato che sia egemone, che sia passato, nel nostro mondo e anche nella nostra Europa: e invece è continuamente rimesso in discussione. Abbiamo visto al contrario crescere una critica anti-ugualitaria e anti-universalistica a questo principio. Abbiamo visto crescere l'esaltazione delle diversità bioculturali: è considerato valore positivo l'assaporare in pieno la propria differenza e la propria particolarità. Un vizio questo, ahimé, diffuso di recente sotto forma di vezzo e di moda culturale anche nel mio mondo ebraico – e lo dico con rammarico – laddove l'Ebraismo venga di nuovo vissuto come metafora della particolarità, della inconciliabilità. Anziché fare l'operazione grande e virtuosa che i nostri maestri fecero all'uscita dei ghetti, un secolo e mezzo fa, quando il messaggio al contrario era quello di universalizzare la propria esperienza, metterla in relazione con il mondo a partire da quella ricchezza elementare e fondamentale che era appunto quella di pretendere, rivendicare di essere riconosciuti uguali agli altri, con pari diritti, non diversi dagli altri. Ecco, la globalizzazione diventa così la dimostrazione che l'uguaglianza non può esistere, non ci appartiene, o addirittura che non appartiene all'ordine naturale delle cose, che l'universalismo delle nostre esperienze religiose e culturali sarebbe solo una forzatura omologante, un tentativo di piegare una realtà che invece ci vede diversi. Io credo che qui davvero stia il pericolo che anche i cristiani debbono fronteggiare, perché “ama il prossimo tuo come te stesso” è il principio fondativo che dalla Torah passa a Vangelo, e che oggi troviamo disatteso non solo nella pratica dei conflitti contemporanei, ma anche in questa insidiosa opera di critica culturale a cui io vi facevo riferimento.
Mi piacerebbe lanciavi una domanda – ve l'accennavo prima – circa l'11 Settembre. Io credo che davvero l'aver sperimentato la critica – come ci ricordava Enzo Bianchi – la capacità di essere critici, sia una risorsa nuova che ci accomuna. E per esempio l'abbiamo sperimentata con emozione nel Giubileo del bimillenario cristiano, quando per la prima volta un Papa si è posto il problema del cosiddetto “mea culpa”, cioé della purificazione della memoria, del riconoscimento delle colpe storiche commesse in nome e per conto della Chiesa da alcuni dei suoi figli. Ebbene, mi verrebbe da chiedermi, oggi che quella purificazione della memoria resta scolpita nel nostro vissuto, sarebbe stata possibile, sarebbe stata pensabile dopo l'11 Settembre del 2001? Avrebbe trovato la forza, questo Papa, questo Vaticano, questa Chiesa, di produrre un'operazione analoga dopo gli attentati alle due torri, al Pentagono e tutto quello che ne è conseguito? Naturalmente non chiedo a nessuno dei presenti di rispondere a questa mia che è soltanto una suggestione: ma che vuole indurvi a riflettere sulle modalità con cui anche la Chiesa ha voluto rapportarsi alla sua presenza nel mondo contemporaneo. Perché quel mea culpa ha lavorato e lavorerà ancora nel profondo, con la sua spinta che è anche destrutturatrice dirompente, destabilizzante. Ma non mi sembrano queste parolacce, non mi sembrano, diciamo, paure che possano in qualche modo paralizzare chi abbia fiducia, chi abbia fede nel rinnovamento dello spirito religioso anche dentro a questa Europa contemporanea. Io credo che la stessa sfiducia che allora si propose nella critica al mea culpa all'interno della Chiesa si sia poi rafforzata ed enfatizzata dopo l'11 Settembre in questa sensazione di assedio. Ma che invece debba prevalere la certezza che abbiamo nuove e diverse occasioni di incontro dentro a questa Europa. Anche le vicende più recenti di contrapposizione, penso alla Spagna in particolare, che sembrerebbero descrivere revival di antichi schemi (anticlericalismo contro invece i Carlisti o i nostalgici della regina Isabella) sono caricature: sono caricature, quando si va a scavare all'interno di quelle società, si vede che non è più quello lo schema che si sta proponendo. Quando parli con i cattolici spagnoli, ti rendi conto che non è un caso se a un certo punto se ai vescovi di quella terra è scappato detta una eventuale concessione sull'uso del preservativo in funzione di prevenzione contro una terribile malattia. Anche se poi c'è stato il passo indietro, è qualche cosa che resta, e quando parli con quei cattolici senti che c'è naturalmente, inevitabilmente, tutta la loro opposizione di principio all'idea stessa di un matrimonio fra omosessuali: ma non c'è invece resistenza, ma al contrario consenso, all'idea che lo stato laicamente possa anche regolamentare quel tipo di unioni. Senza che ciò necessariamente comporti una mortificazione della fede, o una distruzione o un vuoto spirituale.
Concludo, rapidamente. Per tornare quindi all'idea che non siamo necessariamente oggi “spenti”. Che nel tempo della guerra prolungata – qualcuno parla di una Quarta Guerra Mondiale, la Terza essendo la Guerra Fredda che si è conclusa, che durerà molti anni: è stata evocata addirittura l'immagine della “guerra infinita” – in questo tempo l'Europa viceversa possa svolgere un preciso ruolo di monito e di testimonianza, che non può essere liquidato sotto la voce “capitolazionismo”, “spirito di monaco”. C'è invece un continente che ha cominciato con fatica imperfetta a far tesoro delle lezioni della sua storia. E quindi quando Moltmann si chiedeva, all'inizio del suo intervento, se l'Europa possa significare qualcosa per il mondo, io credo che forse la sua esportazione pacifica di democrazia – con l'allargamento della sua unione politica – dia una risposta possibile, anche se molto fragile, parziale, a quella domanda. E da questo punto di vista non è un male in un certo senso sentirsi “bambini bruciati” che temono il fuoco. Forse ce l'abbiamo un'anima in comune: e in questo senso non mi spaventa che voi possiate, quest'anima, sentirla cristiana. Grazie. |